In Francia si discute di certificati di verginità
Il governo vorrebbe vietare ai medici di rilasciarli, ma secondo qualcuno una legge sarebbe un danno proprio per le donne che intende proteggere
Lo scorso febbraio, in un discorso molto commentato e apprezzato, il presidente francese Emmanuel Macron aveva affrontato la questione della riorganizzazione delle istituzioni dell’Islam in Francia, per modificarne le strutture in modo da contrastare la diffusione delle sue versioni più radicali e violente e soprattutto combatterne il separatismo, cioè la tendenza a creare comunità indipendenti dall’entità statale alla quale appartengono. Qualche giorno fa, durante le celebrazioni per i 150 anni della Repubblica, Macron ha annunciato la presentazione entro la fine dell’anno di un disegno di legge contro il separatismo di cui altri ministri, in diverse interviste, hanno anticipato qualche dettaglio. Uno di questi ha a che fare con l’introduzione del divieto, per i medici, di rilasciare i cosiddetti “certificati di verginità”.
Sulla questione, in molte e molti – pur condividendo il presupposto che la pratica sia sbagliata e che non abbia tra l’altro alcun fondamento scientifico e clinico – non sono d’accordo: perché il divieto penalizzerebbe e metterebbe in gravi difficoltà proprio le donne che la legge stessa pretende di “proteggere”.
Necessaria premessa
Nel senso comune, e fin dall’antichità, la verginità è stata associata all’imene che, in modo del tutto infondato ma radicatissimo (e spesso supportato dalle ambiguità delle definizioni e dei manuali), viene considerato come una specie di barriera alla penetrazione e dunque una “garanzia” della purezza o dell’innocenza di una donna.
L’imene è la membrana che circonda o ricopre in parte l’apertura esterna della vagina e che “separa” il vestibolo della vagina (lo spazio compreso tra le piccole labbra) dalla vagina stessa. Come ogni altra parte del corpo, cambia nel tempo (solitamente si atrofizza con l’età) e può avere consistenze e forme diverse da donna a donna: può anche non esserci, può essere più o meno elastico e più o meno spesso, può avere varie forme, presentare uno o più fori o non presentarne affatto. E quando l’imene ricopre l’intera apertura vaginale può essere un problema, risolvibile comunque con un piccolo intervento.
Comunque sia, l’aspetto dei genitali femminili non racconta affatto la storia sessuale di una donna e si basa sull’idea data per scontata di un rapporto vaginale penetrativo. Il concetto stesso di verginità, inoltre, è stato di fatto utilizzato per controllare le donne nel corso della storia e perpetuare pregiudizi sulla loro sessualità.
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Che cosa sono i test di verginità
I test di verginità vengono effettuati per controllare che l’imene di una donna – e dunque la sua moralità o reputazione – sia intatto. Come ha spiegato l’ISSM (International Society for Sexual Medicine), il test «viene effettuato di solito attraverso il “metodo delle due dita”. L’esaminatore – spesso un dottore, un leader della comunità o un membro delle forze armate – inserisce due dita nella vagina di una ragazza al fine di verificare la presenza di un imene intatto». Di solito, le donne e le ragazze sono costrette a sottoporsi all’esame su richiesta dei genitori, dei futuri mariti in vista del matrimonio o dei datori di lavoro. In molti paesi, il test viene poi eseguito sulle donne arrestate durante le proteste come ulteriore forma di intimidazione, o viene utilizzato come esame di routine nei procedimenti penali contro le donne accusate di aver avuto rapporti sessuali prematrimoniali o extraconiugali, o nei processi per stupro. E ha conseguenze molto dirette sui procedimenti giudiziari, diventando la base che porta alla condanna delle vittime e all’assoluzione degli stupratori.
Nel 2018, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, l’Agenzia UN Women e l’OMS avevano adottato una dichiarazione congiunta in cui chiedevano a tutti gli stati di vietare il “test di verginità” perché discriminatorio, umiliante e traumatico. Avevano anche spiegato che la pratica era utilizzata in almeno 20 paesi, tra cui: Afghanistan, Brasile, Egitto, India, Indonesia, Iran, Iraq, Giamaica, Giordania, Libia, Malawi, Marocco, Sudafrica, Sri Lanka, Turchia, ma anche Regno Unito e Irlanda del Nord. Il rapporto diceva infine che stavano emergendo casi anche in paesi che non avevano una storia precedente legata a questa pratica, tra cui Belgio, Canada, Paesi Bassi, Spagna e Svezia.
Storicamente, i test della verginità non hanno comunque un legame esclusivo con determinati paesi o con determinate religioni monoteiste. Basti pensare all’usanza diffusa fino a qualche decennio fa anche in Italia di esporre alla finestra il lenzuolo della prima notte di nozze per mostrare, con la macchia di sangue, la verginità pre-nuziale di una donna e dunque la sua “virtù”. Nel 2015, si discusse molto della pratica negli Stati Uniti dopo che Breyln Freeman Bowman, figlia di un pastore protestante del Maryland, al suo matrimonio regalò al padre un attestato di verginità firmato da un ginecologo e incorniciato.
In diversi paesi del mondo, dove la pratica non rappresenta un’eccezione, i test sono stati formalmente vietati, ma continuano comunque ad essere pretesi ed eseguiti.
Le diverse posizioni in Francia
A inizio settembre, la ministra della Cittadinanza Marlène Schiappa e poi il ministro dell’Interno Gérald Darmanin hanno dichiarato di voler «formalmente vietare» i certificati di verginità e di voler introdurre, nel nuovo disegno di legge contro il separatismo, «una pena» contro chi li rilascia. Non ci sono molti altri dettagli, ma la proposta si basa su un parere del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Medici che, nel 2003, aveva raccomandato il rifiuto dell’esame e della stesura di tale certificato «privo di qualsiasi giustificazione medica e che costituisce una violazione del rispetto per la persona e della privacy della giovane donna (soprattutto se minorenne), costretta da chi la circonda».
Da allora non è stata fatta alcuna valutazione per cercare di comprendere meglio e di quantificare il fenomeno dei certificati. Joëlle Belaisch-Allart, presidente del Collegio nazionale francese di ginecologia e ostetricia, ha spiegato a Le Monde che «Si tratta di casi estremamente rari, ma che esistono».
Secondo molte e molti, il governo ha però sbagliato obiettivo occupandosi degli operatori sanitari e pretendendo di modificare le cose dall’alto, con l’imposizione di una legge repressiva. Secondo l’associazione che in Francia si occupa di aborto e contraccezione, (ANCIC), «in tutti i casi, questa richiesta (quella di un certificato, ndr) è un’opportunità per accogliere, valutare la situazione e mettere in discussione queste pratiche con la donna stessa. Lo spazio per parlare è utile e deve rimanere possibile. Il divieto avrebbe come conseguenza solo quella di negare le pratiche, senza farle sparire». La ginecologa Martine Hatchue, dell’ANCIC, ha raccontato di essersi più volte confrontata con donne che le chiedevano un certificato di verginità: «Il mio approccio è innanzitutto dire che non possiamo, con un semplice esame clinico, affermare che una donna è vergine. Ma anche spiegare, ad esempio, che il 40 per cento delle donne non sanguinerà durante il primo rapporto, che la sessualità è una questione di rispetto dell’altro e che non sta nell’imene». Laurence Danjou, co-presidente di ANCIC, ha aggiunto: «In linea di principio, siamo contro l’emissione di questi certificati, ma piuttosto che una politica repressiva, sarebbe meglio organizzare una vera e propria campagna di informazione su questi temi, oltre ad una rete di protezione per le donne che potrebbero trovarsi in pericolo in assenza di questo documento».
Per Isabelle Derrendinger, segretaria generale del consiglio nazionale delle ostetriche, «certificare la verginità è un’assurdità anatomica, ma nonostante questo, il mancato rilascio di questo documento può mettere in pericolo le donne (…) La prima cosa da fare è educare la popolazione alla vita emotiva e sessuale, non penalizzare gli operatori sanitari». Sulla necessità di informare e decostruire gli stereotipi, ha insistito anche la ginecologa Ghada Hatem, attivista femminista e fondatrice della Maison des femmes de Saint-Denis, che accoglie donne vulnerabili o vittime di violenza: «Quando vedo che la donna davanti a me ha delle risorse e che può farcela anche senza, mi rifiuto di rilasciare questo certificato. Le spiego, le parlo dei diritti delle donne, delle lotte delle generazioni precedenti affinché le donne possano determinare il loro corpo. Ma in alcuni casi, soprattutto per le giovanissime, la mia priorità è prima di tutto quella di proteggerle e se il rilascio di un certificato di verginità è l’unico modo per farlo, lo faccio».
Qualche giorno fa, su Libération, è stato pubblicato un appello collettivo di ginecologhe e ginecologi contro la decisione del governo di approvare una legge che vieti i certificati di verginità: «Siamo decisamente contrari ai test di verginità». Ma, aggiungono, «i medici nei loro studi non risolvono le questioni della laicità, del separatismo o di altre grandi questioni sociali. Hanno a che fare con la sofferenza fisica o psicologica dell’essere umano singolare (…)». Il certificato di verginità, dicono, è per alcune «famiglie tradizionali di diverse religioni monoteiste» un passaggio necessario: «Questa pratica è fortunatamente estremamente rara e riguarda un numero esiguo di pazienti. In un mondo ideale, ci si dovrebbe ovviamente rifiutare di rilasciare tali certificati. Rifiutarsi significa difendere la libertà delle donne e il loro diritto fondamentale di disporre del proprio corpo. Significa rispettare la loro intimità. Significa non sostenere, e men che meno accettare, le richieste infondate del dominio maschile e del controllo dell’istituzione familiare o sociale». Ma, proseguono, «potremmo trovarci nella situazione di dover fornire questi certificati a una giovane donna per salvarle la vita, per proteggerla perché è indebolita, vulnerabile o minacciata». Il colloquio individuale, sostengono, deve continuare ad essere «un’occasione per ascoltarla, per aiutarla a prendere coscienza e liberarsi da questo dominio maschile o familiare. Ci permette anche di capire cosa la ostacola e cosa la minaccia. Pertanto, emettere questo certificato non significa fare il gioco dei fondamentalisti che lo pretendono, anzi». Introdurre un divieto punito penalmente significherebbe, insomma, non eliminare la pratica, ma portarla completamente nella clandestinità, senza possibilità di un intervento reale.
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