Perché il regolamento di Dublino è un problema
Dopo il discorso di von der Leyen si è tornati a parlare dell'inefficiente sistema che trattiene in Italia e in Grecia migliaia di migranti: ma una soluzione semplice non esiste
Nel corso del suo discorso sullo Stato dell’Unione, tenuto ieri al Parlamento Europeo, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha annunciato che intende riformare il regolamento di Dublino, il collo di bottiglia legislativo che trattiene in Italia e in Grecia migliaia di migranti che arrivano via mare, e che gli esperti di immigrazione considerano datato e inefficiente. Von der Leyen ha aggiunto che la Commissione presenterà una proposta specifica il 23 settembre, un giorno prima del Consiglio Europeo, la riunione dei capi di stato e di governo dell’Unione, fissato per il 24 settembre.
Nonostante i dettagli della proposta non siano ancora noti, quindi nemmeno le sue possibilità di essere approvata – in passato sia il Parlamento sia la Commissione avevano più volte provato a modificare il Regolamento trovando sempre l’opposizione del Consiglio dell’Unione Europea, l’organo dove sono rappresentati i governi degli stati nazionali – le parole di von der Leyen sono state così nette e ambiziose che si è tornati a parlarne concretamente.
Cosa dice il Regolamento di Dublino
La Convenzione di Dublino è stata firmata nel 1990 da 12 stati dell’Unione Europea ed è entrata in vigore l’1 settembre 1997 in forma di regolamento, cioè una legge europea vincolante per tutti gli stati che fanno parte dell’Unione. Riguarda il processo per chiarire quale stato debba esaminare la richiesta di un richiedente asilo – e quindi ospitarlo per la durata della pratica – una volta entrato nel territorio dell’Unione Europea.
La Convenzione è nata fondamentalmente per adottare una pratica comune in tutta Europa ed evitare che un richiedente asilo possa fare domanda in più stati dell’Unione, creando confusione e conflitti di responsabilità. La prima Convenzione prevedeva due punti chiave:
1. Lo Stato responsabile della gestione della domanda di asilo di ciascun richiedente asilo è quello in cui abitano legalmente i suoi parenti stretti, o dal quale ha già ricevuto un permesso di soggiorno.
2. In assenza di legami accertati, lo Stato che si fa carico della domanda e dell’accoglienza è il primo in cui il richiedente asilo mette piede.
Negli anni il secondo punto è diventato via via più rilevante, tanto da mettere in secondo piano il primo: sia per ragioni pratiche – si evitano costosi trasferimenti fra stati – sia perché spesso è complicato accertare legami di parentela fra due persone che abitano a migliaia di chilometri di distanza, le cui ricerche coinvolgono tre apparati amministrativi che parlano lingue diverse (provate a mettere nella stessa stanza uno svedese, un greco e un maliano).
Perché non funziona?
Per prima cosa, le norme di Dublino sono vecchie: trascurando le piccole modifiche attuate nel 2003 e nel 2013 sono rimaste praticamente le stesse da trent’anni, quando l’Unione Europea non esisteva ancora. Le norme di Dublino, inoltre, sono state concepite immaginando flussi regolari di richiedenti asilo e una sostanziale complicità e standard comuni in tutti i paesi dell’Unione: in questo modo, a regime, i richiedenti che avevano legami familiari sarebbero stati trasferiti nei paesi competenti, e quelli senza particolari legami sarebbero stati “spontaneamente” accolti nei paesi di frontiera.
Appena i flussi sono aumentati, come successo dal 2013 in avanti, è diventato chiaro che il sistema non avrebbe retto. Nel 2015 arrivarono così tante persone dal Medio Oriente e dal Nord Africa, in fuga dalla guerra e dalle violenze, che le autorità greche e italiane smisero temporaneamente di registrare gli arrivi.
I problemi principali del Regolamento sono tre: il primo è l’eccessivo onere a carico dei paesi di frontiera, che soprattutto in caso di aumento dei flussi devono stanziare cifre ingenti per gestire e accogliere i richiedenti in arrivo, esaminare le loro pratiche, ospitarli per mesi o anni in attesa della decisione definitiva, e così via. Nel 2017, ultimo anno di flusso ingente verso l’Italia prima che il governo Gentiloni decidesse di affidare il compito di fermare i migranti alle milizie armate in Libia, l’Italia spese per l’accoglienza dei richiedenti asilo circa 4,3 miliardi di euro, una cifra paragonabile a una piccola manovra fiscale (sebbene mitigata da alcuni finanziamenti europei).
Il secondo problema riguarda l’inefficienza dell’intero sistema. La maggior parte dei richiedenti asilo che arrivano in Italia, Grecia e Spagna – i paesi di frontiera più coinvolti – non ambisce a rimanerci, ma a spostarsi nei paesi in cui si parla una lingua che conosce, dove il mercato del lavoro è meno rigido, e dove ha già una rete di connazionali fra parenti lontani e amici. In Italia, fra l’altro, le principali forme di protezione per richiedenti asilo, che durano al massimo qualche anno, non sono convertibili in permessi di soggiorno per motivi di lavoro: significa che anche i più fortunati fra i richiedenti asilo molto raramente riescono a ottenere permessi stabili che consentano loro di progettare una vita in Italia, e integrarsi a tutti gli effetti.
Il terzo problema di Dublino riguarda i diritti dei richiedenti asilo. Affidare l’intera gestione del sistema a pochi paesi, senza una redistribuzione omogenea, fa in modo che le autorità nazionali di Italia, Grecia e Spagna siano oberate di pratiche – anche nei periodi di minore flusso – e facciano fatica a prendere decisioni in tempi accettabili, prolungando il limbo e le situazioni di vulnerabilità in cui si trovano i richiedenti asilo: su tutti quelli che attendono una decisione sulla propria richiesta nei campi profughi sulle isole greche, in condizioni disumane.
I tentativi di riforma
Il tentativo più concreto di riformare il regolamento di Dublino era iniziato nel 2015 al Parlamento Europeo. Dopo due anni di intensi negoziati, nel 2017 il Parlamento approvò con una maggioranza trasversale che andava dal centrodestra alla sinistra radicale una proposta che aveva come obiettivo una maggiore condivisione dell’accoglienza dei richiedenti asilo da parte di tutti i paesi europei, oltre a quelli di frontiera e quelli più coinvolti dal flusso in entrata per ragioni storiche (Francia e Germania).
Il punto più importante della riforma prevedeva l’eliminazione del criterio del “primo ingresso”, e di sostituirlo con un meccanismo obbligatorio di ripartizione dei richiedenti asilo fra i 27 Stati dell’Unione. Il numero massimo di richiedenti asilo da ospitare sarebbe stato stabilito da una quota, diversa per ogni paese, in base al PIL e alla popolazione. Nella riforma c’erano anche norme che rispondevano ad alcune esigenze segnalate da chi lavora con i richiedenti asilo, come la possibilità di inserire una preferenza sullo stato in cui essere ospitato, sia misure chieste da parlamentari europei più prudenti, come un periodo di transizione di tre anni prima dell’introduzione definitiva delle quote.
La riforma fu approvata al Parlamento Europeo – nonostante l’astensione della Lega e il voto contrario del Movimento 5 Stelle – e fu accolta dalla Commissione Europea, che ne aveva scritto il testo base, ma si bloccò in sede di Consiglio dell’Unione Europea, l’organo dove sono rappresentati i governi nazionali dei 27 paesi. All’approvazione della riforma si sono sempre opposti i paesi dell’Est, tradizionalmente ostili all’accoglienza dei migranti dal Medio Oriente e dal Nord Africa.
Un anno dopo, nel 2018, la Bulgaria propose un ulteriore compromesso durante il suo semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione, ma stavolta a esprimere le maggiori perplessità furono i paesi di frontiera: la proposta bulgara prevedeva infatti un periodo di transizione di dieci anni prima dell’entrata in vigore delle quote, giudicato eccessivo da Italia, Spagna, Grecia, Cipro e Malta.
Cosa può cambiare stavolta?
Non è chiaro. Nel discorso di ieri von der Leyen è stata molto vaga, e si è limitata a dire che nelle intenzioni della Commissione il Regolamento sarà sostituito da «un forte meccanismo di solidarietà», che il nuovo sistema sarà più «umano» e che gli stati nazionali dovranno prepararsi a «ricostruire la propria fiducia negli altri»: formule generiche che non lasciano trapelare molto, nemmeno sul tema delle quote obbligatorie su cui lo scorso Parlamento e la scorsa Commissione erano sostanzialmente d’accordo.
Il principale ostacolo rimane l’opposizione dei paesi dell’Est. Nessuno dei più intransigenti, peraltro, ha cambiato governo rispetto al 2017: ancora qualche settimana fa il primo ministro ungherese Viktor Orbán, a capo di un governo semi-autoritario, ha auspicato che i paesi dell’Est continuino a respingere gli «esperimenti» della società europea occidentale, che prevedono «famiglie arcobaleno, immigrazione e società aperte».
La proposta che la Commissione presenterà il 23 settembre sarà valutata dai governi nazionali nelle settimane successive. A luglio il governo tedesco, che mantiene la presidenza di turno del Consiglio fino a dicembre, aveva annunciato di voler trovare un accordo sulla riforma del Regolamento di Dublino entro l’anno, ma da allora non sono emerse proposte concrete o basi di negoziato.