Anche l’Arabia Saudita normalizzerà i rapporti con Israele?
Molti segnali dicono che dopo il Bahrein può essere il prossimo paese a farlo, ma potrebbe servire ancora del tempo
Lo scorso 5 settembre Abdulrahman al Sudais, imam della Grande Moschea della Mecca, in Arabia Saudita, ha pronunciato un sermone molto inusuale e inaspettato, definito da qualcuno «sermone della normalizzazione». Sudais, uno dei religiosi più importanti del suo paese, ha invitato i musulmani a evitare «emozioni appassionate e ardenti entusiasmi» nei confronti degli ebrei, cambiando decisamente toni rispetto ai discorsi precedenti, quando definiva gli ebrei «invasori e aggressori» e difendeva strenuamente la causa palestinese. L’espressione «sermone della normalizzazione» è stata usata per definire qualcosa che potrebbe succedere, ma che non è ancora successa: cioè la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, un evento che potrebbe cambiare in maniera importante il Medio Oriente come lo conosciamo oggi.
Fino a un mese fa, la normalizzazione dei rapporti tra sauditi e israeliani sarebbe stata fantapolitica. Nel corso degli ultimi 75 anni, l’Arabia Saudita è stata il più importante difensore arabo della causa palestinese. Anche in tempi recenti, i sauditi hanno continuato a chiedere agli altri paesi arabi di non avere relazioni diplomatiche con Israele a meno che il governo israeliano accettasse la creazione di uno stato palestinese lungo i confini storici della Palestina. Le cose sono cambiate negli ultimi mesi, e non solo per il sermone di Sudais.
A metà agosto gli Emirati Arabi Uniti, molto vicini all’Arabia Saudita, erano diventati il primo paese del Golfo Persico e il terzo paese arabo a riconoscere Israele (dopo Egitto e Giordania).
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Già allora diversi esperti avevano sostenuto che l’Arabia Saudita avrebbe potuto seguire le mosse emiratine, ma con tempi più lenti e maggiori prudenze. L’ipotesi più accreditata era che il regime saudita avesse voluto aspettare per vedere la reazione del resto del mondo arabo e dell’Iran – principale nemico sia di Israele che dell’Arabia Saudita – per poi decidere in un secondo momento cosa fare. I rischi per i sauditi, si era detto, erano maggiori rispetto a quelli degli Emirati, per due ragioni: sia perché i religiosi e i settori più conservatori della società saudita – assai influenti nelle decisioni prese dalla monarchia regnante – erano meno disposti a cedere sulla causa palestinese rispetto a quelli emiratini; sia perché gli Emirati non temevano l’Iran nella misura in cui lo temevano Israele e gli altri paesi del Golfo, che avrebbero potuto subire le ritorsioni degli iraniani.
Qualche apertura, comunque, si era già vista anche prima della normalizzazione dei rapporti tra Emirati e Israele.
Due anni fa, in un’intervista data all’Atlantic, il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, la persona oggi più potente del regno, aveva detto che «gli israeliani avevano il diritto ad avere la propria terra», provocando parecchie reazioni stupite. Le affermazioni di bin Salman erano state poi ridimensionate da una nota di re Salman, il re dell’Arabia Saudita, che si è sempre detto convinto sostenitore della causa palestinese.
Negli ultimi mesi sono successe altre cose che hanno portato a pensare che il riconoscimento di Israele da parte dell’Arabia Saudita non fosse più fantapolitica.
A inizio anno, Mohammed al Aissa, ex ministro saudita e segretario generale della Lega musulmana mondiale, importante ong islamica fondata alla Mecca, aveva visitato il campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia. A giugno, lo stesso Aissa aveva partecipato a una conferenza organizzata dall’American Jewish Committee, organizzazione ebraica con sede a New York che si occupa di diritti umani, dove aveva parlato della necessità di avere un mondo senza islamofobia e antisemitismo. Inoltre ad aprile, durante il periodo del Ramadan, il canale televisivo saudita MBC, controllato dal regime, aveva trasmesso la serie Umm Haroun, in cui gli ebrei erano mostrati in una luce molto più positiva rispetto a quanto avviene solitamente nel paese.
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La generale impressione di una apertura verso Israele, che già a metà agosto aveva trovato ampio consenso tra gli esperti di Medio Oriente, sembra essere stata confermata dagli sviluppi più recenti: cioè dalla normalizzazione dei rapporti tra Israele e Bahrein annunciata venerdì scorso e formalizzata oggi, martedì 15 settembre, con la firma di un documento ufficiale alla Casa Bianca alla presenza del presidente statunitense Donald Trump.
Il riconoscimento di Israele da parte del Bahrein, altro paese arabo del Golfo Persico, ha detto molto sulla posizione saudita, ha scritto il giornalista David Kirkpatrick sul New York Times. Il regime del Bahrein aveva perso moltissima della sua autonomia nove anni fa, durante le cosiddette “primavere arabe”, cioè quei movimenti di protesta iniziati nel 2011 diretti contro i regimi autoritari di diversi paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Il Bahrein, così come altri paesi del Golfo, aveva chiesto aiuto al regime saudita per sedare le proteste, sacrificando un bel pezzo della propria autonomia. Da allora i governanti del Bahrein – musulmani sunniti, a differenza della maggioranza della popolazione, musulmana sciita – si sono assicurati il potere grazie alla minaccia dell’uso della forza da parte dei sauditi. Per questo, ha scritto Kirkpatrick, «Il Bahrein non avrebbe mai fatto questo passo se Riyadh (la capitale saudita) si fosse opposta».
Per Israele la normalizzazione dei rapporti con il regime saudita sarebbe una enorme vittoria: l’Arabia Saudita è il più importante e influente paese arabo del Golfo Persico, il principale nemico dell’Iran insieme a Israele e il custode dei due luoghi più importanti per la religione islamica: Medina e La Mecca. Per il momento sembra però che il riconoscimento di Israele da parte dei sauditi sia uno scenario lontano, che difficilmente si concretizzerà in tempi brevi, soprattutto perché l’appoggio della popolazione saudita alla causa palestinese è ancora molto ampio.