Riusciremo a fare abbastanza tamponi?
Con le scuole aperte e l'influenza che arriva, tra qualche mese ne serviranno molti più di adesso: ma non si sa molto di come ci stiamo preparando
Nei mesi di marzo e aprile, con l’epidemia da coronavirus nella sua fase più acuta e devastante, uno dei tanti pezzi del sistema sanitario che andarono in crisi fu quello dei test molecolari – i famosi tamponi – necessari per identificare i positivi, che a lungo non riuscì a raggiungere tutte le persone che ne avevano bisogno. Da allora la complessa macchina che sta dietro ai tamponi è stata molto migliorata, sia come efficienza sia come capacità: ma non sappiamo ancora molto su quali siano i piani per prepararsi a quello che ci aspetta in autunno.
Indipendentemente da come evolverà l’epidemia, e da quanto la situazione dei contagi peggiorerà, tra alcuni mesi lo sforzo a cui sarà sottoposto il sistema dei tamponi in Italia sarà probabilmente molto superiore a quello attuale. Il motivo principale è che arriveranno le comuni sindromi influenzali, che normalmente interessano diversi milioni di italiani ogni anno: con sintomi nella maggior parte dei casi analoghi a quelli della COVID-19, e la conseguente urgenza di una diagnosi che stabilisca se sia necessario un rigido isolamento del paziente o meno.
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Va tenuto presente che è plausibile che quest’anno le persone ad ammalarsi di influenza saranno significativamente di meno: le misure di igiene e distanziamento in vigore, oltre a limitare il contagio da coronavirus, ridurranno infatti anche quello per gli altri virus che si trasmettono per vie respiratorie. Ma le influenze, le polmoniti comuni e i brutti raffreddori legati all’arrivo della stagione fredda ci saranno comunque. E all’equazione che ha regolato finora la domanda di tamponi tra la popolazione si aggiungerà una variabile enorme: la ripresa della scuola, con i suoi oltre 8 milioni di studenti che passeranno diverse ore ogni giorno in ambienti chiusi e, nonostante tutte le misure adottate, affollati. Come sa chiunque abbia figli o lavori nella scuola, normalmente nei mesi invernali i malanni stagionali in una classe sono all’ordine del giorno.
Da tempo, perciò, virologi ed esperti avvertono della necessità di ampliare il sistema che somministra e analizza i tamponi per il coronavirus, per arrivare preparati. Finora in Italia sono stati fatti quasi 9,5 milioni di test molecolari per il coronavirus, distribuiti su circa 5,7 milioni di casi. Tra i grandi paesi europei, l’Italia ne ha fatti più della Francia, più o meno come la Spagna, ma meno di Regno Unito e Germania, che però ha anche oltre 20 milioni di abitanti in più.
A partire dalla metà di aprile, il numero di tamponi analizzati ogni giorno dai laboratori italiani è salito drasticamente, cominciando a superare regolarmente le 50mila unità; a fine agosto, poi, è aumentato ulteriormente, arrivando a superare spesso le 90mila unità e in certi casi anche le 100mila al giorno. Sono numeri estremamente superiori rispetto a quelli di marzo e di inizio aprile, quando la media si aggirava intorno ai 30mila. All’epoca erano troppi pochi per testare tutte le persone che presentavano sintomi: per questo per diverse settimane in diverse regioni, la Lombardia per prima, la loro disponibilità fu limitata ai soli pazienti ricoverati in ospedale, senza che chi era malato a casa venisse testato.
I problemi principali erano il numero ridotto di laboratori e la difficoltà a reperire i reagenti necessari per analizzare i test. Ma erano assai più limitate anche le dimensioni e l’efficienza della macchina che gestiva le fasi precedenti all’elaborazione dei test in laboratorio: cioè quella che gestiva e si prendeva carico delle segnalazioni, e che concretamente eseguiva i tamponi sui pazienti.
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Oggi i laboratori sono aumentati, aggiungendo alla rete di ciascuna regione quelli in precedenza adibiti ad altri scopi e parte di quelli privati; i reagenti sono diventati più facili da trovare per l’aumento della produzione da parte delle aziende internazionali che li fanno e la centralizzazione degli approvvigionamenti; le ASL si sono organizzate molto meglio nel sistema di sorveglianza; e i tamponi si fanno ormai da mesi anche a domicilio e nelle strutture drive through, in cui il paziente rimane in auto durante tutta la procedura.
«Il punto nodale è che ora siamo in una fase diversa per quanto riguarda la necessità di tamponi», spiega Carlo Federico Perno, virologo che dopo essere stato a capo del laboratorio dell’ospedale Niguarda nella fase iniziale dell’epidemia si è ora trasferito al Bambino Gesù di Roma. «Nella fase acuta erano i malati, ora sono i contagiati in generale». E sarà così anche nei prossimi mesi: non sarà importante testare soltanto chi sta male, ma anche chi ha pochi o nessun sintomo, visto che per quanto ne sappiamo sono casi comunque contagiosi. «Potremmo avere più bisogno di tamponi adesso che in passato», dice Perno.
Uno dei principali sostenitori della necessità di fare più test è il microbiologo Andrea Crisanti, a capo del laboratorio dell’università di Padova. Nelle scorse settimane, il governo aveva chiesto a Crisanti di preparare un piano per aumentare il numero di tamponi processati in Italia: la sua proposta, ha detto in un’intervista al Corriere della Sera, è di passare dagli attuali 70-75 mila nel giorno medio a 300mila. Secondo il Corriere, l’operazione comporterebbe una spesa iniziale di 40 milioni di euro, più 1,5 milioni al giorno per la gestione del sistema, quadruplicando di fatto la capacità del sistema attuale. Per farlo, Crisanti propone di «attivare venti nuovi laboratori in ogni regione», sia strutture fisse che mobili, centralizzando l’organizzazione del sistema che attualmente è assai disomogenea tra regione e regione (ma anche tra ASL e ASL, e tra laboratorio e laboratorio).
Un piano per aumentare la capacità del sistema di test in Italia è attualmente in fase di preparazione da parte del governo e del commissario straordinario per l’emergenza Domenico Arcuri, che lo sottoporrà prossimamente al Comitato tecnico scientifico. Secondo un articolo del Sole 24 Ore, che dice di averne appreso il contenuto, il piano prevede di raggiungere i 200mila tamponi al giorno, tra le altre cose attraverso l’acquisizione di particolari macchinari detti “di pooling”, che consentono di aggregare i campioni molecolari analizzandone un maggior numero in contemporanea, ottimizzando perciò i tempi di elaborazione.
Il Post ha contattato il ministero della Salute per sapere a che punto sia la preparazione del piano e quali siano gli obiettivi, senza ottenere però una risposta in tempo per la pubblicazione di questo articolo. Fonti vicine al commissario straordinario per l’emergenza coronavirus Domenico Arcuri, che si occupa dell’approvvigionamento centralizzato dei kit diagnostici per i laboratori italiani, hanno confermato al Post che il piano è in via di definizione, e prevede tra le altre cose un maggiore approvvigionamento di reagenti. Il progetto è definito come «molto ambizioso», ma non ci sono ancora obiettivi ufficiali per quanto riguarda il numero di tamponi quotidiani.
Fare tanti test è raccomandato anche dall’OMS, ma tanti virologi avvertono che l’approccio “a tappeto” presenta dei limiti e delle controindicazioni. Perno spiega che «i tamponi sono uno strumento che identifica chi è infettato in questo momento, quindi vanno ripetuti periodicamente: serve un piano per capire chi tamponare e quando». Un tampone negativo su un paziente, infatti, non vale più il giorno dopo.
Per analizzare una quantità di tamponi molto superiore a quella attuale servirà necessariamente un piano che coinvolga vari aspetti e fasi della macchina. Un elemento centrale è l’approvvigionamento di reagenti: «Va programmato con apposite gare di appalto, se si vuole allargare il bacino di persone testate, per non trovarsi spiazzati» spiega Perno.
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Tra i virologi c’è chi sostiene che la soluzione per evitare di ritrovarsi senza la possibilità di acquistare reagenti sia produrli da soli, come fa il laboratorio di Padova diretto da Crisanti. Ma altri esperti sono scettici verso sistemi che non usino materiali opportunamente certificati, e che potrebbero per questo produrre più risultati errati (soprattutto i falsi negativi, cioè tamponi in cui il virus non viene rilevato nonostante sia presente). Finora in Italia si è preferito affidarsi ai reagenti “ufficiali”.
Ma per aumentare il numero di tamponi non basta intervenire sui laboratori, allestendone di nuovi e assumendo più personale. Bisogna infatti rendere più efficienti anche le fasi che precedono l’analisi vera e propria: quelle che fanno sì che un lungo cotton fioc finisca nel naso di una persona che una mattina si è svegliata con qualche linea di febbre e un po’ di tosse. E che ci finisca idealmente nel giro di due o tre giorni al massimo.
L’ATS di Milano, che ha competenza su tutta l’area metropolitana della città e sul lodigiano, ha avuto nelle scorse settimane un assaggio di quello che potrebbe succedere in autunno. «Siamo passati dall’avere poche centinaia di tamponi richiesti quotidianamente dai medici di famiglia a oltre 30mila in due settimane, per le persone che rientravano dai paesi e dalle regioni per i quali era previsto», spiega Walter Bergamaschi, direttore generale dell’ATS di Milano. «Il problema non erano solo i laboratori, ma anche tutto il resto della macchina, che però nonostante fosse Ferragosto è stata riavviata in fretta, con qualche sovraccarico la prima settimana».
A partire dall’autunno, secondo Bergamaschi, una delle preoccupazioni principali dovrà essere organizzare il sistema di accesso ai tamponi «in modo che i pazienti – da considerare sospetti – seguano percorsi quanto più possibile isolati, senza incrociare gli altri». A dicembre, per esempio, fare i tamponi nei drive through potrebbe non essere possibile, per il freddo e il maltempo. Per stimare quanti tamponi saranno necessari, l’ATS di Milano sta preparando uno studio che calcoli il numero di sindromi influenzali basandosi sui dati storici, individuando un numero di tamponi che sarebbe necessario indipendentemente dalla diffusione del coronavirus.
A lungo, uno dei limiti nel meccanismo che erogava i test era l’impossibilità per i medici di famiglia di richiederli direttamente: i pazienti dovevano passare attraverso le ASL, con grandi sovraccarichi dei centralini che dovevano, oltre a prenotare gli appuntamenti, valutare l’opportunità di fare il tampone. Ora i medici di famiglia possono chiederli direttamente, ma c’è chi ha proposto che siano loro stessi ad eseguirli, per sveltire ulteriormente il sistema. È un’ipotesi che ha trovato sostegno tra alcuni esperti, ma ci sono dei rischi: «il problema non è la procedura di esecuzione, che un medico può imparare in poche ore, ma il rischio di fare un’operazione di questo tipo negli studi, con il rischio di contagi» spiega Bergamaschi. «Poi serve una logistica specializzata: ci vuole un sistema di trasporti con gli appositi frigoriferi, che raccolga i tamponi senza ritardi che ne comprometterebbero l’integrità».
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L’ATS di Milano sta valutando di introdurre la possibilità per i medici di prenotare direttamente gli appuntamenti ai pazienti, e anche quella di organizzare un sistema di prenotazioni online accessibile agli stessi cittadini. Il rischio è che il personale dei centralini non basti: quando è stato deciso il tampone obbligatorio per chi rientrava da alcuni paesi e regioni, in quello dell’ATS di Milano lavoravano 3 persone. Per gestire l’altissimo numero di richieste è stato necessario richiamare parte del personale dalle ferie, arrivando ad avere 80 persone al lavoro nei centralini.
Oltre ai tamponi, da tempo si stanno considerando e sperimentando anche altri tipi di test: non quelli sierologici, già ampiamente utilizzati, ma anche i cosiddetti “test rapidi”, che possono essere di tipi diversi, sia molecolari che antigenici (che analizzano la saliva), accomunati da un tempo di risposta molto inferiore. «Se fossero efficaci potrebbero sicuramente essere un’alternativa che non sostituirebbe i tamponi ma che potrebbe aiutare per esempio gli ospedali per smistare meglio i pazienti con sintomi influenzali, che devono rimanere isolati sia da quelli sicuramente sani sia da quelli sicuramente contagiati» dice Bergamaschi. Ma secondo Perno è fondamentale ottimizzare la qualità dei test, senza la quale «allargare i test non è auspicabile perché si rischia di aumentare i falsi negativi».