Come andrà per i medici di famiglia, in autunno?
Siamo andati a vedere cosa è migliorato e cosa no rispetto a tutte le cose che non avevano funzionato in primavera, e oggi il coronavirus non è l'unica preoccupazione
Quando il sistema sanitario nazionale è stato colto alla sprovvista dall’epidemia da coronavirus cominciata lo scorso febbraio, i medici di famiglia sono stati la categoria che più delle altre ha dovuto arrangiarsi da sola per fronteggiare l’emergenza. Da allora sono cambiate tante cose, e all’esperienza maturata dalla medicina territoriale si è aggiunta un’efficienza enormemente superiore della macchina sanitaria che gli sta intorno. In vista dell’autunno, e di una possibile “seconda ondata di contagi”, i medici di famiglia come il resto del sistema sanitario saranno più pronti e attrezzati.
Nonostante siano passati sei mesi, però, ci sono grosse questioni che ancora non sono state risolte, e soprattutto c’è una preoccupazione che paradossalmente, nella fase più acuta dell’epidemia, era secondaria: la normale influenza, con i suoi sintomi in parte analoghi a quelli della COVID-19.
«Il problema non sarà solo se ci sarà una seconda ondata, il problema sarà distinguere se ci sia», spiega Silvestro Scotti, segretario nazionale della FIMMG, il principale sindacato dei medici di medicina generale. «Quando in autunno inizieranno le sindromi influenzali, se saranno particolarmente virulente ci sarà tra i pazienti una fase sintomatica iniziale praticamente indistinguibile». Oltre al coronavirus, quindi, a mettere sotto pressione il sistema sanitario inizialmente saranno i giustificati sospetti di chiunque si ammalerà di una comune influenza o polmonite di avere contratto la COVID-19. E questa pressione, per forza di cose, si riverserà sul primo collegamento tra i cittadini e l’assistenza sanitaria, cioè i medici di famiglia.
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L’importanza della medicina territoriale in un’epidemia era diventata evidente la scorsa primavera, quando si era capito che una risposta che privilegiasse un’assistenza sanitaria a casa dei pazienti, facendo meno ricorso ai ricoveri ospedalieri, era assai più efficace. La scarsa coordinazione dei medici di famiglia, e la gestione prettamente ospedaliera della crisi, erano stati infatti tra i fattori determinanti del gravissimo bilancio dell’epidemia in Lombardia (insieme a diversi altri, alcuni ancora da capire davvero).
Le difficoltà e le frustrazioni dei medici di famiglia lombardi erano state assai documentate. Da allora le cose sono molto migliorate, spiega il dottor Michele Marzocchi, che ha lo studio a Milano. «Ma adesso le cose vanno bene perché in questo momento non ci sono criticità: ieri ho visto il primo tampone positivo tra i miei pazienti da aprile». In autunno, i presupposti saranno comunque molto diversi rispetto allo scorso inverno, spiega Marzocchi: «Allora il virus girava sottotraccia da mesi, e non c’erano le misure restrittive e di igiene di oggi».
Tra i più importanti miglioramenti nelle condizioni di lavoro dei medici di famiglia c’è stata l’introduzione delle USCA, le unità spesso composte da giovani medici che si occupano di seguire a casa i pazienti positivi e sospetti. Un’altra è la possibilità di richiedere il tampone naso-faringeo per i propri pazienti, ormai da diversi mesi. «Al momento funziona anche con una certa velocità, a più o meno 72 ore dalla richiesta c’è il risultato», spiega Marzocchi. Ma già nelle scorse settimane, con i tamponi obbligatori su chi rientrava da alcuni paesi esteri o dalla Sardegna, ci sono stati dei sovraccarichi e dei rallentamenti: «Quindi quando arriverà la stagione dei sintomi influenzali bisognerà vedere».
Ora che il coronavirus ha una trasmissione endemica, chiunque presenti sintomi come febbre, tosse o difficoltà respiratorie dovrà essere trattato come un caso sospetto dai medici di famiglia: e quindi dovranno essere usate tutte le precauzioni di un positivo acclarato. Per ridurre i casi del genere, da tempo medici ed esperti di sanità sottolineano l’importanza di un’estesa copertura vaccinale contro l’influenza: meno persone la prenderanno, meno falsi allarmi ci saranno.
Se i tempi tra la richiesta del tampone per un caso sospetto e l’accertamento della sua eventuale positività saranno eccessivamente lunghi, c’è grande incertezza su quali misure debbano essere applicate, e come. I problemi saranno più o meno gli stessi che a marzo e aprile riguardavano le persone con sintomi sospetti che non riuscivano a essere testate: i loro conviventi possono andare al lavoro, o a fare la spesa? Chi si occuperà della loro sorveglianza e assistenza, nella fase di incertezza tra influenza e COVID-19?
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«Se si va a vedere le linee guida attuali, ci sono procedure che formalizzano soltanto la parte fino alla richiesta del tampone: e poi?» chiede Scotti. Come già successo nei primi mesi di epidemia, ora come ora c’è il rischio che i problemi riguarderanno anche le terapie da applicare, sulle quali ci sono indicazioni spesso contrastanti. Ci sono poi farmaci usati per curare la sintomatologia da COVID-19 che sono stati ritirati dalle farmacie territoriali, riservandoli unicamente a quelle ospedaliere: «in molti posti bisogna coinvolgere gli ospedali per poter somministrare antivirali» spiega Scotti.
Un’altra grande difficoltà dei primi mesi di epidemia era stata reperire i dispositivi di protezione individuale, dalle mascherine ai guanti ai camici. Le forniture ai medici di famiglia da parte del sistema sanitario nazionale o regionale erano state insufficienti, quando non assenti, e tutti avevano dovuto procurarseli da soli sul mercato: anche nelle settimane in cui una mascherina professionale poteva arrivare a costare decine di euro in certe farmacie. Non è cambiato molto: le forniture continuano a non esserci, dice Scotti, ma la differenza è che adesso non ci sono grossi problemi ad acquistare i dispositivi, la cui produzione e distribuzione è enormemente aumentata.
Per sveltire la fase di “sospetto” tra la comparsa di sintomi e il risultato del tampone, c’è chi ha proposto che siano gli stessi medici di famiglia a fare i tamponi, inviandoli poi agli appositi laboratori perché siano analizzati. Questo eliminerebbe la fase della presa in carico della segnalazione da parte delle ASL, che non è omogeneamente efficiente (non sempre è informatizzata, per esempio) e che è a forte rischio di sovraccarico. «I medici di famiglia dovranno andare a vedere le persone a casa, dovranno fare loro stessi i tamponi. Se non si ristabilisce questo sistema per cui le persone non si portano in ospedale, non riusciremo a farcela» ha detto per esempio Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani di Roma.
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Per ora non sono state prese decisioni in questo senso, ma comunque non è una questione semplice. Partecipando all’indagine con i test sierologici per i docenti, la categoria dei medici di famiglia ha voluto segnalare di essere pronta a un’operazione del genere, dice Scotti. Ma per via della particolare contrattualizzazione dei medici di medicina generale, a metà tra liberi professionisti e dipendenti statali, al momento le responsabilità di esporre sistematicamente se stessi e le persone che lavorano nello studio ai pazienti sospetti ricadrebbero sui medici stessi. «Un po’ come un direttore di ospedale», spiega Scotti, con la differenza che il contratto dei medici di famiglia non include tutele per una casistica del genere. «Il problema è che il contratto non prevede una situazione di emergenza: non parlo dal punto di vista della remunerazione, ma delle tutele, della chiarezza sui compiti e le funzioni».