L’Islam non ha mai apprezzato i cani, ma qualcosa potrebbe cambiare
Nonostante i divieti molto espliciti della dottrina musulmana, alcune autorità religiose stanno aprendo alla possibilità di avere cani come animali domestici
I musulmani osservanti sanno bene che la dottrina dell’Islam – interpretata in maniera letterale dalle frange più conservatrici – non vede di buon occhio i cani: esistono vari hadith, cioè insegnamenti attribuiti al profeta Maometto, che descrivono il cane come un animale fondamentalmente impuro con cui non è opportuno dividere la propria casa. Da anni però si discute se le indicazioni della dottrina siano il lascito di un’epoca molto diversa da quella odierna, in cui le norme religiose contenevano anche consigli igienici – anche l’ebraismo non apprezza i cani e in generale gli animali selvatici – e possano quindi essere superate.
Ne ha scritto di recente anche l’Economist, citando il parere del gran mufti d’Egitto, il più alto rappresentante del clero nel paese, secondo cui l’uomo può tranquillamente vivere assieme a un cane, sulla base di un’altra tesi dell’Islam secondo cui tutti gli animali sono puri perché creati dalla divinità, esattamente come l’uomo.
Il problema principale sembra essere la saliva, percepita come estremamente impura. Uno degli hadith di Maometto dice esplicitamente che se un cane lecca un contenitore, quello che c’è dentro va buttato, mentre il contenitore va lavato sette volte prima di essere riutilizzato. L’ostilità verso la saliva si estende anche al suo proprietario: «crescere o vivere con un cane nella propria casa non è permesso dall’Islam in nessuna circostanza: impedisce agli angeli di entrare in casa e riduce le buone azioni compiute ogni giorno dai fedeli», spiega Ali Mashael, capo del dipartimento religioso del governo degli Emirati Arabi Uniti. Sono previste eccezioni soltanto per i cani da guardia oppure che aiutano l’uomo a cacciare o badare agli altri animali, a patto che non entrino nella casa del padrone.
Le cose non sono sempre state così, ha spiegato su Quartz Alan Mikhail, un professore di storia che insegna all’università di Yale e di recente ha pubblicato un libro sugli animali nell’Egitto di età ottomana. Fin dall’antichità anche nei paesi musulmani i cani venivano utilizzati per guardare il bestiame e tenere puliti gli ambienti comuni, dato che erano soliti cibarsi di avanzi e piccoli animali: «poi, all’incirca due secoli fa, le cose sono cambiate a causa delle epidemie».
Nonostante fossimo ancora lontani dal teorizzare l’esistenza dei germi, in Medio Oriente, Europa e altrove le persone iniziarono a notare una correlazione fra le epidemie di peste, colera e malaria e la prossimità delle vittime con posti come cimiteri, discariche e laghi paludosi. Gli amministratori e i funzionari governativi in tutto il Medio Oriente rimossero quelle che ritenevano fonti del contagio dalle città sempre più densamente popolate: e una volta che spostarono i rifiuti fuori dalle mura della città, espulsero anche i cani che erano soliti mangiarli. Ora il loro compito era assolto dagli umani.
Mikhail, insomma, lascia intendere che i religiosi abbiano deciso di usare alcuni degli insegnamenti di Maometto – ne esistono moltissimi, che riguardano anche le questioni più disparate – per giustificare una scelta politica e amministrativa. L’Economist ipotizza che ci siano ragioni di natura simile anche dietro alle dichiarazioni del gran mufti d’Egitto: il presidente autoritario egiziano, Abdel Fattah al Sisi, vuole controllare in maniera più stringente le autorità religiose nazionali, e sta cercando di farlo attraverso Dar al Ifta, il gruppo che attualmente esprime il gran mufti. L’Economist nota che da quando Dar al Ifta è al centro di queste trame, le sue indicazioni sono diventate più progressiste, come se stesse cercando di ingraziarsi l’opinione pubblica.
A prescindere da quello che succede in Egitto, sembra che le cose stiano lentamente cambiando per conto loro: negli ultimi anni sempre più giornali e riviste hanno pubblicato testimonianze di proprietari musulmani di cani che cercano di sfatare miti sulla loro presunta impurità.