C’è carenza di scimmie per le ricerche sul coronavirus
La domanda negli Stati Uniti per impiegarle nei test su farmaci e vaccini è aumentata enormemente, ma non se ne trovano a sufficienza
Negli Stati Uniti non ci sono scimmie a sufficienza per testare vaccini e terapie contro la COVID-19, la malattia causata dal coronavirus. Questi animali sono solitamente utilizzati nei centri di ricerca per verificare sicurezza ed efficacia dei farmaci, prima di sperimentarli nei test clinici sugli esseri umani, ma in mancanza di macachi e altri primati non umani le sperimentazioni rischiano di procedere a rilento, con conseguenze sui tempi per lo sviluppo di nuove soluzioni per fermare la pandemia in corso.
L’Atlantic ha consultato esperti e ricercatori negli Stati Uniti ricevendo numerose conferme sulla carenza di scimmie e sulle difficoltà che sta comportando nel loro lavoro. Questa circostanza sta portando laboratori, università e aziende a competere tra loro per avere a disposizione scimmie a sufficienza, in un paese dove comunque è difficile di per sé condurre esperimenti su alcune specie di animali per le forti pressioni da parte delle organizzazioni animaliste. Negli ultimi anni la sensibilità verso queste pratiche è aumentata in buona parte dell’Occidente, con un confronto su costi e benefici della sperimentazione sugli animali, dal punto di vista etico, morale e pratico.
La mancanza di scimmie è dovuta al fatto che la pandemia ha fatto aumentare enormemente la domanda di questi animali, in una fase storica in cui gli Stati Uniti faticavano già a ottenerne un numero sufficiente. Un ulteriore peggioramento è stato determinato dalla scelta della Cina di interrompere le esportazioni di scimmie, mettendo in difficoltà i centri di ricerca statunitensi che solo lo scorso anno avevano importato 35mila scimmie, il 60 per cento delle quali da allevamenti cinesi.
Un paio di anni fa, quindi ben prima dell’inizio della pandemia, i National Institutes of Health (NIH), una delle principali istituzioni sanitarie degli Stati Uniti, avevano segnalato in un rapporto una carenza di scimmie tale nei propri centri da proporre l’attivazione di una “riserva strategica”, che permettesse di rispondere a eventuali e imprevisti aumenti della domanda per questi animali nel caso di nuove epidemie. Una pandemia è infine arrivata, ma l’istituzione sanitaria non ha avuto evidentemente risorse a sufficienza per creare la riserva, che ora si sarebbe potuta rivelare utile.
Come avviene di solito nello studio di particolari malattie, le scimmie sono utilizzate dai ricercatori per vari scopi. Esponendole a un agente infettivo come il coronavirus, per esempio, si possono analizzare le sue modalità di replicazione e l’evoluzione della malattia. I primati non umani sono inoltre utilizzati per verificare la sicurezza e l’efficacia di vaccini e farmaci, in animali che hanno molte cose in comune con noi.
Negli Stati Uniti le scimmie costituiscono circa lo 0,5 per cento di tutti gli animali utilizzati nella ricerca biomedica, ma le loro caratteristiche simili a quelle del nostro organismo le rendono ideali per le fasi finali delle sperimentazioni, prima che queste siano avviate sugli esseri umani. Le somiglianze in alcuni ambiti sono notevoli: i ricercatori possono per esempio utilizzare sulle scimmie la stessa tipologia di test usati sugli esseri umani per verificare la presenza di anticorpi, sviluppati dopo la somministrazione di un vaccino.
Esporre le scimmie a un agente infettivo per farle ammalare e studiarle, o per verificare se siano diventate immuni dopo avere ricevuto una vaccinazione, è una pratica delicata e con notevoli implicazioni etiche. Nel Novecento le attività di questo tipo si sono rivelate essenziali per studiare e debellare malattie, salvando milioni di persone e consentendo di estendere sensibilmente la vita media in molte aree del mondo. Negli ultimi anni le sperimentazioni sugli animali sono state messe in dubbio da parte della comunità scientifica: l’auspicio è che siano sempre meno necessarie complici gli avanzamenti nelle tecniche alternative di ricerca, anche se al momento sono inevitabili per diversi ambiti di studio su alcune delle malattie più pericolose e letali conosciute.
Nella ricerca di un vaccino efficace, le scimmie offrono condizioni di ricerca in un ambiente controllato difficilmente riproducibile con gli esseri umani. Dopo avere ricevuto una o più dosi del vaccino sperimentale, le scimmie vengono esposte al coronavirus per valutare se siano immuni e come il loro sistema immunitario reagisca all’infezione. Ottenere informazioni chiare sui volontari è più difficile, perché sono esposti al coronavirus già naturalmente e sono più difficili da tenere sotto controllo costantemente, rispetto ad animali che vivono chiusi in un laboratorio. Le scimmie consentono inoltre di valutare l’efficacia di un vaccino sperimentale su individui molto giovani, simulando le condizioni che potrebbero interessare i bambini, esclusi dai test clinici per i vaccini.
I ricercatori tendono comunque a utilizzare le scimmie nelle ultime fasi dello sviluppo di un farmaco o di un vaccino, poco prima di avviare i test clinici negli esseri umani. Per le fasi precedenti sono spesso utilizzati altri animali che, seppure con maggiori e più marcate differenze rispetto al nostro organismo, sono più facili da gestire e si riproducono in tempi più rapidi. Ratti, criceti e altri roditori sono ampiamente utilizzati per le sperimentazioni e, vista la carenza di scimmie, negli Stati Uniti le principali istituzioni scientifiche consigliano di utilizzarli il più possibile prima di fare ricorso ai primati non umani.
Non ci sono molti allevamenti di scimmie da destinare alla scienza negli Stati Uniti e i fondi per farlo spesso scarseggiano. La forte opposizione delle associazioni per i diritti degli animali incide inoltre sulla capacità e le possibilità di apertura di nuovi centri. Anche per questo motivo gli Stati Uniti, come diversi altri paesi occidentali, fanno da tempo ricorso alla Cina, dove allevare scimmie è meno costoso e i movimenti per la tutela degli animali sono meno diffusi, o non riescono comunque a superare i controlli e le censure del governo.
La cosiddetta “guerra commerciale” tra Cina e Stati Uniti iniziata poco dopo l’elezione di Donald Trump aveva già complicato le cose, portando a un sensibile aumento dei prezzi per importare scimmie, soprattutto macachi, molto richiesti dall’industria biomedica statunitense. Le esportazioni si sono poi sostanzialmente fermate dopo l’inizio della pandemia: alcuni esperti e ricercatori sospettano che il blocco sia stato determinato da scelte politiche e per avvantaggiare la ricerca cinese in una fase di emergenza. A oggi non è possibile prevedere come e quando riprenderà il commercio dei primati non umani a scopo scientifico.