La giornalista arrestata in Cina
La vicenda di Cheng Lei, nota conduttrice tv con doppia nazionalità cinese e australiana, sembra l'ennesimo sviluppo delle tensioni crescenti tra Australia e Cina
Una giornalista con doppia nazionalità cinese e australiana che vive e lavora a Pechino, Cheng Lei, è stata arrestata in Cina. Cheng conduce un programma di notizie in inglese sul canale CGTN, che fa parte della televisione di stato cinese CCTV. Non è stata avanzata alcuna accusa formale contro di lei, e finora le autorità cinesi non hanno chiarito il motivo del suo arresto. Al momento si sa soltanto che sono in corso colloqui diplomatici per cercare di ottenere maggiori informazioni, ma la vicenda sta facendo parlare anche perché da qualche tempo le tensioni tra Australia e Cina si sono parecchio intensificate.
Come ha spiegato ABC, giornale australiano indipendente, Cheng non è formalmente sotto accusa ma si trova almeno dal 14 agosto in “sorveglianza residenziale in un luogo designato”, che è uno strumento con cui le forze di polizia cinesi possono arrestare una persona sospettata, trattenendola anche fino a sei mesi. La legge cinese prevede che con questo tipo di sorveglianza le autorità possano impedire alla persona fermata di contattare chiunque, avvocati compresi, anche prima che venga formalizzata un’accusa.
Cheng è nata in Cina ma è cresciuta e ha studiato in Australia, dove si è laureata in Economia e commercio all’Università del Queensland, a Brisbane. Dopo aver lavorato per nove anni a CNBC, canale statunitense specializzato in argomenti finanziari, nel 2012 arrivò a CGTN, dove è diventata una delle conduttrici più note grazie al programma quotidiano “Global Business”. Oltre a condurre interviste importanti, Cheng era il volto delle nuove iniziative del canale; nel tempo libero partecipava attivamente alla vita della comunità australiana a Pechino.
Gli amici di Cheng si erano insospettiti quando non avevano ricevuto risposta ai loro messaggi. Inoltre, da qualche tempo il profilo della giornalista sul sito di CGTV era stato cancellato, così come i video dei suoi servizi più recenti. Anche se non è la prima volta che in Cina vengono arrestati giornalisti stranieri o si parla di “sparizioni forzate”, il suo caso è piuttosto discusso per via della sua fama, e i media australiani ipotizzano che sia stata arrestata per aver criticato la gestione della pandemia da coronavirus del governo cinese.
Negli ultimi mesi i rapporti tra Australia e Cina sono peggiorati, soprattutto da quando l’Australia aveva chiesto che venisse avviata un’indagine indipendente per determinare le responsabilità della Cina rispetto alle origini e alla diffusione del coronavirus. Da quel momento è in corso una guerra commerciale tra i due paesi: la Cina ha iniziato a sospendere alcune esportazioni verso l’Australia e applicare dazi per l’esportazione di altre merci; di contro, l’Australia ha bloccato la vendita di un’azienda di prodotti caseari a una società cinese perché l’acquisizione «sarebbe stata contraria all’interesse nazionale».
Un’altra delle cose che sta facendo aumentare la tensione tra Australia e Cina, poi, è una nuova legge proposta dal primo ministro australiano Scott Morrison, che consentirà al ministro per gli Affari esteri di rivedere e cancellare accordi preesistenti tra le autorità regionali, le università e i paesi stranieri considerati «dannosi» per gli obiettivi di politica estera del paese. Secondo il tabloid cinese in lingua inglese Global Times – che è controllato dal governo – questa legge avrebbe «l’obiettivo implicito» di penalizzare la Cina.
– Leggi anche: A Hong Kong è stato arrestato il proprietario di un tabloid
La ministra per gli Affari esteri australiana Marise Payne ha spiegato che Cheng aveva potuto parlare tramite videoconferenza con alcuni diplomatici australiani soltanto il 27 agosto, e che la giornalista «sta bene come si può immaginare che possa star bene». La portavoce del ministero per gli Affari esteri cinese, Hua Chunying, aveva invece detto di non avere «informazioni specifiche» da condividere con la stampa, e che le autorità cinesi stavano operando secondo la legge vigente.
La “sorveglianza residenziale in un luogo designato” fu introdotta dal sistema giudiziario cinese nel 2013, ufficialmente per gestire detenuti con particolari necessità, ma in pratica dando largo potere alle forze di polizia di gestire questo tipo di detenzione, di solito in isolamento in luoghi che sono di fatto delle carceri. Come ha detto Elaine Pearson, responsabile della ong Human Rights Watch Australia, questa pratica espone chiaramente i detenuti a «maltrattamenti e torture». Peter Dahlin, direttore della ong per i diritti umani Safeguard Defenders, ha fatto notare che tecnicamente, se l’isolamento della sorveglianza residenziale supera i 15 giorni e avviene nell’ambito di un’indagine, l’ONU lo classifica come tortura.
– Leggi anche: Le “vacanze” forzate dei dissidenti cinesi