Cinque anni fa la Germania accolse un milione di rifugiati. Com’è andata?
I dati sull'occupazione e l'integrazione sono buoni, ma ci sono dei ma
Cinque anni fa, nell’estate del 2015, la cancelliera tedesca Angela Merkel prese una decisione con pochissimi precedenti che ha avuto conseguenze concrete per la vita di milioni di persone. Mentre centinaia di migliaia di migranti stavano scappando dal Medio Oriente risalendo l’Europa attraverso la cosiddetta rotta balcanica, Merkel decise di dare ospitalità in Germania a tutti quelli che provenivano dalla Siria, dove si stava combattendo una sanguinosissima guerra civile. Fra il 2015 e il 2016 arrivarono in territorio tedesco circa 1,2 milioni di richiedenti asilo, che in pochi mesi resero la Germania il quinto paese al mondo con la più alta concentrazione di rifugiati (nello stesso periodo l’Italia ricevette 204mila richieste di asilo: sei volte meno).
Il governo tedesco avviò il più ampio programma di integrazione realizzato in Europa dal Secondo dopoguerra, e Merkel giustificò la sua decisione con tre parole, ripetute più volte nel corso di comizi, interviste e discorsi pubblici. Wir schaffen das, “ce la possiamo fare”, lasciando intendere che il suo paese aveva la forza – morale, sociale ed economica – per accogliere e integrare i nuovi arrivati. A distanza di cinque anni, diversi giornali hanno cercato di capire a che punto siamo.
Cosa ha funzionato, fin qui
I dati più citati riguardano il tasso di occupazione dei rifugiati accolti fra il 2015 e il 2016. Una delle principali preoccupazioni nei mesi successivi al loro arrivo ruotava intorno alla capacità del mercato del lavoro di assorbire così tante persone in poco tempo, nonostante la Germania sia di gran lunga il paese più ricco e prospero dell’Unione Europea.
Secondo un recente studio dell’istituto di ricerca federale per il lavoro, il 49 per cento dei rifugiati arrivati durante il flusso della rotta balcanica ha un lavoro – quindi paga le tasse – oppure sta seguendo un tirocinio di avviamento al lavoro, anche grazie ai moltissimi programmi avviati dallo stato in collaborazione con le aziende. Nella popolazione tedesca la percentuale è del 75 per cento.
Più del 60 per cento, inoltre, ha avuto almeno un lavoro a distanza di cinque anni dall’arrivo: sono numeri superiori, anche se di poco, alle percentuali registrate negli anni Novanta e Duemila fra i migranti arrivati in Germania dall’Europa dell’Est. «Non sono numeri perfetti ma ci rendono ottimisti», ha detto all’Economist Marlene Thiele, che dirige un progetto di integrazione dei rifugiati alla Camera di commercio tedesca.
Altri indicatori fanno pensare che in molti casi l’integrazione sia stata assai profonda. Il 75 per cento dei rifugiati è riuscito a trasferirsi dai centri gestiti dal governo a un appartamento privato. La quasi totalità dei bambini e dei ragazzi frequenta da anni le scuole tedesche, e più dell’ottanta per cento di loro si sente a proprio agio e apprezzato dai propri coetanei.
Con tutta probabilità, l’inserimento dei rifugiati nelle reti sociali e produttive del paese ha evitato fenomeni di radicalizzazione che potevano mettere in pericolo la sicurezza nazionale. Peter Neumann, un esperto di terrorismo che lavora al King’s College di Londra, ha raccontato al Guardian che all’epoca si disse ottimista sull’esperimento tedesco: «dentro di me, però, ero preoccupato: funzionerà davvero? Con un milione di persone di cui sappiamo pochissimo? Alla fine, erano paure infondate».
«Sappiamo che alcune persone coinvolte negli attentati al Bataclan di Parigi arrivarono in Europa sfruttando il caos dei flussi migratori, in alcuni casi fingendosi rifugiati siriani», spiega Neumann: «E sapevamo anche che la stragrande maggioranza dei richiedenti asilo erano maschi giovani, il segmento demografico più soggetto alla radicalizzazione. Eppure, oggi possiamo dire che i nostri peggiori timori non si sono realizzati».
Dopo una serie di attacchi terroristici compiuti nel 2016, fra cui quello al mercato natalizio di Berlino in cui morirono 12 persone, in Germania non ne sono più avvenuti (anche grazie al lavoro dell’intelligence). Non si è materializzato nemmeno l’aumento di reati pronosticato dall’estrema destra di Alternative für Deutschland (AfD): fra il 2014 e il 2016 ci fu effettivamente un aumento dei reati violenti, e la percentuale di richiedenti asilo condannati per reati del genere raddoppiò, ma erano soprattutto tensioni e violenze che avvenivano all’interno dei centri, dove centinaia di persone erano costrette a vivere a pochi metri l’una accanto all’altra. Già nel 2018 il tasso di criminalità in Germania è stato il più basso registrato dall’unificazione del paese.
Politico ha calcolato che dal 2015 a oggi il governo tedesco ha speso circa 87 miliardi di euro per l’integrazione dei migranti arrivati attraverso la rotta balcanica: una cifra che sarà sicuramente compensata dalle tasse pagate nei prossimi anni dal mezzo milione di persone che stanno già lavorando.
Cosa non funziona, ancora
Dal punto di vista del lavoro, ci sono alcuni aspetti decisamente negativi: per esempio il fatto che l’occupazione femminile rimanga molto inferiore a quella maschile – 29 per cento contro il 75 per cento: c’entra il fatto che molte donne arrivate da paesi come l’Iraq e l’Eritrea erano sostanzialmente analfabete – e che la qualità degli impieghi che trovano i rifugiati sia più bassa rispetto alle loro competenze.
Un’agenzia del governo federale ha calcolato che circa l’80 per cento dei rifugiati aveva un lavoro qualificato nel proprio paese d’origine: al momento però solo il 52 per cento di loro ne ha trovato uno in Germania, mentre il 44 per cento si è accontentata di lavori nella ristorazione e nella cura degli anziani, per cui non servono particolari competenze (e che fra l’altro sono fra i primi a essere tagliati durante i periodi di crisi, come quello dovuto alla pandemia da coronavirus).
Il sistema burocratico tedesco non aiuta: le competenze del governo federale e delle varie autorità locali a volte si sovrappongono, e a volte una persona o una famiglia finiscono in un labirinto burocratico da cui è difficile emergere. «Chiedete a qualsiasi rifugiato da dove arrivi il loro incubo peggiore, e vi risponderanno la cassetta delle lettere», ha raccontato all’Economist Karam Kabbani, un attivista politico scappato dalla Siria. Il rischio che ricevano richieste, minacce e pretese da parte di astruse agenzie governative o regionali, peraltro scritte in tedesco, è altissimo.
Nonostante le possibilità offerte, poi, anche il processo di integrazione può essere migliorato. I corsi di lingua tedesca per i rifugiati che vivono nel paese – obbligatori – sono un ostacolo sia per chi ha già un diploma o una laurea e potrebbe lavorare subito, sia per le persone più avanti con gli anni che devono imparare una lingua straniera fra mille difficoltà. Un 44enne siriano ha raccontato al Guardian che teme di essere bocciato all’esame di tedesco fissato per settembre – per ricevere il permesso di lavorare serve conoscere il tedesco a livello B1, non una cosa semplicissima – anche perché le lezioni in presenza sono state cancellate per via della pandemia, e nel centro dove vive il segnale Wi-Fi è troppo debole per seguirle a distanza.
Infine, le condizioni di vita sono particolarmente dure per le circa 200mila persone a cui il sistema giuridico tedesco assegnato lo status noto come duldung, una parola tedesca che significa “tolleranza”: sono migranti a cui per vari motivi non è stato riconosciuto il permesso di vivere in Germania, ma per cui il governo ha sospeso le procedure di rimpatrio. Le persone in questa categoria non possono spostarsi dalla regione in cui vivono e i loro figli non hanno la cittadinanza tedesca: vivono in una specie di limbo, finché il governo deciderà se espellerli oppure integrarli con una sanatoria (senza però avergli dato tutti gli strumenti per integrarsi, nel frattempo).
L’Economist scrive che le persone in stato di duldung sono il prodotto della posizione scomoda in cui si trova il governo tedesco. Una sanatoria totale potrebbe irritare l’elettorato, soprattutto quello conservatore, in un periodo in cui l’AfD si è assestata come il quarto partito più popolare nel paese. Un rimpatrio di massa sarebbe praticamente impossibile – parliamo di decine di migliaia di persone che potrebbero decidere di non farsi più trovare dallo stato – oltre che malvisto dall’elettorato progressista.