Il bombardamento della NATO in Bosnia ed Erzegovina, 25 anni fa
La "Operation Deliberate Force" contribuì a mettere fine a una guerra che durava da tre anni e che i paesi europei non erano riusciti a risolvere per via diplomatica
Nelle prime ore del 30 agosto 1995, venticinque anni fa, iniziò la Operation Deliberate Force, l’operazione militare della NATO in Bosnia ed Erzegovina, dove da tre anni si stava combattendo una guerra dopo la dissoluzione di quella che fino al 1992 era stata la repubblica federale di Jugoslavia. Quello della NATO fu un intervento decisivo per la fine del conflitto e l’avvio dei negoziati di pace: fu anche un intervento molto discusso in Italia – sia durante che dopo la guerra – perché è dalle basi italiane che partirono gli aerei della coalizione che avevano come bersaglio obiettivi dell’esercito serbo-bosniaco.
La guerra in Bosnia ed Erzegovina era parte di un evento più grande che cambiò radicalmente la penisola balcanica, cioè la dissoluzione della Jugoslavia, avvenuta in varie fasi a partire dal 1990. La guerra iniziò nel 1992, anno in cui la Repubblica della Bosnia ed Erzegovina dichiarò la secessione dalla Jugoslavia. Il territorio bosniaco, tuttavia, era abitato da tre principali gruppi di etnia e religione diverse tra loro: i bosniaci musulmani, i croati cattolici e i serbi ortodossi. Si creò quindi il problema della spartizione del territorio, soprattutto perché i serbi e i croati che vivevano al di fuori intervennero nella disputa.
La dissoluzione della Jugoslavia e le conseguenti guerre nei Balcani – compresa quella in Bosnia ed Erzegovina – ebbero diverse cause. Innanzitutto, il mutamento del quadro politico mondiale, dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, due eventi che ebbero notevoli ripercussioni in Europa occidentale ma soprattutto in quella orientale; inoltre, influirono i problemi del federalismo jugoslavo, che non era in grado di mantenere la stabilità della regione, caratterizzata da antiche tensioni interne tra i popoli. Infine, una crisi economica che da più di un decennio aveva messo in difficoltà le repubbliche jugoslave.
Per tutte queste ragioni, quando nel 1990 si tennero le prime elezioni libere in Jugoslavia, la Slovenia proclamò la secessione e nei due anni successivi fecero lo stesso la Macedonia, nel 1991, e la Bosnia ed Erzegovina, nell’aprile 1992.
Subito dopo, le milizie serbo-bosniache iniziarono a rivendicare e occupare diversi territori della Bosnia ed Erzegovina fino ad assediarne la capitale, Sarajevo. In accordo con il presidente della Repubblica federale, Slobodan Milošević, misero in atto violente operazioni di pulizia etnica, deportazioni e stragi. L’episodio più noto fu il massacro di Srebrenica del luglio 1995: vennero uccisi più di 8mila bosniaci musulmani e fu il genocidio più grave in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
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Sempre nel 1995, i serbo-bosniaci avevano attaccato diverse zone che erano state dichiarate sicure dall’ONU, arrivando a occupare circa il 70 per cento del territorio della Bosnia ed Erzegovina. La NATO, che aveva intensificato la propria presenza per sorvegliare il territorio, minacciò quindi di bombardare i serbo-bosniaci in caso di ulteriori attacchi ad altre zone sicure.
Per via del massacro di Srebrenica e delle continue violazioni delle zone di sicurezza da parte delle milizie serbo-bosniache, la comunità internazionale dovette rivedere la sua strategia: prima dell’intervento della NATO, infatti, i tentativi di diplomazia messi in atto dai soli paesi europei per stabilizzare la situazione non avevano funzionato. Furono soprattutto gli Stati Uniti a spingere per un intervento duro e immediato: in caso di altre violazioni, dissero gli americani, la NATO avrebbe bombardato l’esercito, le linee di comunicazione e i principali impianti di difesa militari serbo-bosniaci per rendere le milizie incapaci di sostenere un conflitto.
Quando il 28 agosto 1995 venne bombardato per la seconda volta nel giro di pochi mesi il principale mercato di Sarajevo, il Markale, la propaganda serba tentò di convincere il mondo di una responsabilità dei bosniaci musulmani. Per la NATO, la cosiddetta seconda strage di Markale, in cui morirono 43 persone e diverse decine furono ferite, fu uno degli eventi determinanti per l’avvio della Operation Deliberate Force, insieme alla grande copertura mediatica che stava avendo la guerra.
Attenzione: il video contiene immagini forti.
Come raccontò il New York Times pochi mesi dopo l’intervento della NATO, l’operazione impiegò risorse militari relativamente ridotte ma in maniera assai oculata: vennero usate meno tonnellate di esplosivo di quelle che in media venivano lanciate in una notte di bombardamenti britannici in Germania durante la Seconda guerra mondiale.
Gli attacchi aerei della NATO furono distribuiti nell’arco di circa quindici giorni, a partire dal 30 agosto 1995. Secondo le fonti ufficiali, i 400 mezzi aerei impiegati nell’operazione uscirono 3.515 volte; durante gli attacchi aerei vennero lanciate in totale 1.026 bombe, e 708 di queste erano bombe guidate, realizzate appositamente per colpire con maggior precisione gli obiettivi. Gli aerei militari della coalizione partirono sia da diverse basi italiane, in particolare Aviano (in Friuli Venezia Giulia) e Istrana (vicino a Treviso), sia dalle portaerei statunitensi e francesi che stazionavano nell’Adriatico. Grazie all’operazione, che impegnò circa 5mila uomini di 15 nazioni diverse, vennero colpiti 338 obiettivi sensibili delle milizie serbo-bosniache.
Tra le altre cose, nell’operazione vennero distrutti mezzi militari, riserve di munizioni e le principali reti di comunicazione dell’esercito serbo-bosniaco. Gli eserciti dei bosniaci musulmani e dei croati, che nel frattempo si erano alleati, riuscirono così a riconquistare gran parte della Bosnia occidentale e i serbo-bosniaci accettarono di avviare i negoziati di pace.
La Operation Deliberate Force fu fondamentale per avviare le trattative diplomatiche che nel novembre 1995 portarono agli Accordi di Dayton, anche se non risolse del tutto i conflitti in quella zona dei Balcani (Sarajevo, per esempio, rimase sotto assedio fino al 29 febbraio 1996).
A partire dal 1995, la NATO inviò in Bosnia ed Erzegovina circa 60mila uomini per evitare l’inizio di una nuova guerra civile e garantire l’impegno del paese per la pace e la stabilizzazione, come previsto dagli Accordi di Dayton. Dopo pochi anni, nel 1999, la NATO sarebbe intervenuta di nuovo nella zona balcanica, stavolta nella guerra tra l’esercito di liberazione del Kosovo, che voleva l’indipendenza dalla Serbia, e quello serbo, che portava avanti una sanguinosa repressione delle proteste.
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