Anche in Giappone la cotoletta è un piatto tipico
È uno dei tanti della cucina yoshoku, nata nell'Ottocento reinventando ricette occidentali con gusto giapponese
di Arianna Cavallo
La cotoletta, l’hamburger, gli spaghetti alla napoletana e le crocchette sono tra i più amati cibi tipici giapponesi, preparati a casa e venduti preconfezionati nei supermercati. Ricordano quelli che si mangiano in Italia o negli Stati Uniti, ma sono piatti nati in Giappone negli ultimi due secoli, rielaborando in modo originale quelli occidentali. Fanno parte della cosiddetta cucina yoshoku, considerata uno dei primi esempi di cucina fusion: nacque dalla commistione di cibi orientali e occidentali per soddisfare gli stranieri e i ricchi giapponesi e poi diventò popolare, economica e preparata da tutti.
Lo yoshoku ha origine in una data precisa: l’8 luglio del 1853, quando l’ammiraglio statunitense Matthew Perry entrò nel porto di Uraga, nell’attuale baia di Tokyo, su mandato del presidente Millard Fillmore. La sua missione era costringere il Giappone – che allora era un paese isolato e retto da una dittatura militare, lo shogunato – a firmare un trattato commerciale con gli Stati Uniti e ad accogliere un consolato americano sul territorio. Dopo qualche resistenza, minacciato dalla superiorità bellica americana, il Giappone accettò. La situazione precipitò: altri paesi ottennero l’apertura dei porti giapponesi – fino a quel momento solo quello di Nagasaki commerciava con gli olandesi – e nel 1868 lo shogunato, già in crisi, si sgretolò, lasciando il passo al ritorno del potere imperiale: iniziò così il periodo di rinnovamento Meiji.
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Durante quest’epoca, che durò fino al 1912, il Giappone avviò un rapido processo di modernizzazione e si aprì all’Occidente. Indicativo dell’aria del tempo è un editoriale pubblicato nel 1885 dall’intellettuale Fukuzawa Yukichi sul giornale giapponese Jiji Shimpo: era intitolato “Datsu-A Ron” (qualcosa come “Asia, Addio”, “Abbandonare l’Asia”) e invitava il paese a distaccarsi dai vicini Cina e Corea e ad allinearsi ai progressi economici e tecnologici dell’Occidente.
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Questo atteggiamento si riversò anche sulla cucina, più o meno volontariamente. Le città costiere che si aprivano al commercio furono abitate da stranieri, che raramente toccavano il cibo locale ma che assumevano cuochi giapponesi nelle loro residenze. Questi imparavano a cucinare i piatti occidentali, che arricchivano ogni tanto con ingredienti o cotture giapponesi, inventando i primi piatti yoshoku.
L’imperatore e la classe dirigente spingevano la popolazione a emulare gli occidentali anche nel modo di mangiare. In particolare, introdussero il consumo di carne, che in Giappone era stato limitato e poi proibito dal VI secolo per il diffondersi del buddhismo dalla Corea. All’epoca molti pensavano che «l’unica ragione per cui i giapponesi avevano corpi deboli rispetto agli occidentali era che non mangiavano carne o latte», come ha spiega lo storico Naomishi Ishige al sito Atlas Obscura. Il governo Meiji annullò il divieto di mangiare carne e nel 1872 l’imperatore la consumò nel banchetto di Capodanno per dare ai sudditi il buon esempio; venne anche promossa l’apertura di aziende che producevano carne e prodotti caseari.
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Nel frattempo, i cuochi che avevano imparato a cucinare per gli stranieri aprirono i primi ristoranti in cui servivano cucina occidentale. Il primo fu il Ryorin-Tei fondato nel 1863 nella città ricca di stranieri di Nagasaki. A inizio Novecento erano posti frequentati dai ricchi giapponesi ma dopo la guerra i piatti yoshoku, con ingredienti economici e sazianti, si cucinavano in tutte le case, nelle cucine dei ristoranti economici giapponesi (i fami-resu) e nei fast food dei centri commerciali.
Uno dei piatti più famosi è il tonkatsu, una cotoletta di maiale fritta, simile alla cotoletta alla milanese o alla Wiener schnitzel (se vivete a Milano potete assaggiarla qui); la sua particolare croccantezza deriva dalla panatura con il panko, un tipo di pangrattato usato nella cucina giapponese. Venne inventata nel 1899 nel ristorante Rengatei di Ginza, a Tokyo: inizialmente era maiale tagliato a fettine, saltato nel burro e infornato, con l’accompagnamento di verdure al vapore; solo successivamente venne fritto a causa della mancanza di burro durante la guerra russo-giapponese (1904-1905) e servito con il cavolo cappuccio, che si trova tutto l’anno.
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Lo hambagu è simile alla Salisbury steak, ed è un hamburger di carne macinata senza pane, modellato a forma di bistecca e servito con una salsa a base di ketchup, burro, vino rosso e una specie di salsa Worcester. Il Doria è l’equivalente giapponese del gratin francese, con il riso al posto delle patate. Venne inventato dallo chef svizzero Sally Weil nell’hotel New Grand di Yokohama, nel 1930, su richiesta di un cliente che voleva qualcosa di facile da mangiare, ed era a base di scampi rosolati nel burro. Ora ci sono molte versioni, le più comuni sono riso ricoperto di sugo alla bolognese oppure di gamberi e besciamella, e poi infornato e fatto gratinare.
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Il kare raisu, il pollo al curry con riso, fu introdotto dai britannici dall’India. Divenne popolare dagli anni Venti, quando era servito regolarmente ai marinai giapponesi per combattere il beriberi, una malattia causata dalla scarsità di vitamina B, collegata al consumo di riso bianco raffinato. I marinai britannici non soffrivano del problema e si pensò di copiarne la dieta introducendo la pietanza, che era un miscuglio di curry (una miscela di spezie indiane), burro, manzo, verdure, tutto addensato con la farina (sia il grano che il manzo contengono vitamina B). Nel 1908, il ricettario ufficiale della Marina pubblicò una ricetta del kare raisu, fatto con carne, farina e burro, a cui successivamente vennero aggiunte le patate, carote e cipolle che si servono ora, molto più spesso del sushi o del ramen.
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La omurice è una omelette ripiena di riso saltato in padella (spesso con ketchup e pollo), ricoperta di ketchup. Una prima versione nacque nel ristorante Rengatei: erano uova strapazzate con carne preparate per i dipendenti come pasto veloce, poi i clienti iniziarono a ordinarla e nel 1901 entrò nel menu. L’altra fu inventata nel 1925 nel ristorante Hokkyokusei di Osaka e aveva un ripieno di riso, funghi e cipolle, avvolto in una crêpe sottile. Il ketchup fu inventato nel 1908, quindi la versione che lo prevede è successiva a questa data.
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Le korokke sono una versione delle croquettes (crocchette) francesi, morbide patate panate nel panko e fritte nell’olio, che si mangiano come stuzzichini dagli anni Venti del Novecento. Le varianti del ripieno sono innumerevoli e prevedono l’aggiunta di verdure o pezzetti di carne. Si servono anche in cima agli spaghetti giapponesi (gli udon o i soba).
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Per finire, ci sono gli spaghetti Napolitan, che non hanno niente a che vedere con una ricetta napoletana: sono spaghetti stracotti e collosi conditi con una salsa a base di aglio, cipolla, funghi, peperoni verdi e salsiccia, amalgamata con tanto ketchup (c’è chi alla fine manteca con un po’ di latte e parmigiano e spolvera con pepe). Il risultato, scrive BBC, è «un matrimonio di dolce, piccante, affumicato e umami che è più buono di quel che sembra” (l’umami è un sapore, come il dolce e l’amaro, che indica quello del glutammato, presente in cibi come la soia e il Parmigiano e molto usato nella cucina giapponese).
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La ricetta nacque negli anni Trenta nel New Grand Hotel di Yokohama, dove c’era la base dei soldati americani guidati dal generale Douglas MacArthur. Si racconta che proprio il generale avesse voglia di un piatto che gli ricordasse casa e Shigetada Irie, il capo chef, si arrangiò come poteva: prese degli spaghetti e della salsa di pomodoro e ci aggiunse cipolle, prosciutto e funghi. Poi, per renderla più economica, negli altri ristoranti si sostituì la salsa col ketchup, mentre il prosciutto venne scalzato da salsiccia o bacon. Gli spaghetti si cuociono come gli udon, cioè gli spaghetti giapponesi: vengono bolliti a lungo e poi saltati.
Per un occidentale, mangiare yoshoku può essere un’esperienza straniante e un piccolo viaggio nel tempo. Da un lato le ricette sono state modificate secondo le preferenze giapponesi, con salse e molto riso; dall’altro sono rimaste più vicine ai piatti originali perché non hanno seguito l’evoluzione del gusto (si continua, per esempio, a usare burro e lardo). È poco conosciuto all’estero, tranne in Corea del Sud (che fu una colonia giapponese) e nelle grandi città abitate da giapponesi, mentre in Giappone è sinonimo di cucina casalinga e sapori nostalgici.
Oggi in Giappone lo yoshoku convive con i locali che offrono cucina occidentale contemporanea, dalle pizze gourmet ai ristoranti francesi con tre stelle Michelin, che arrivarono negli Sessanta e Settanta. Nel 1971 venne aperto il primo ristorante giapponese di McDonald’s, nel quartiere di Ginza a Tokyo. Dopo cento anni i pregiudizi sul cibo occidentale non erano cambiati molto: il responsabile del fast food, Den Fujita, disse infatti che «i giapponesi sono di piccola corporatura perché mangiano riso. La cambieremo a suon di hamburger».