Il referendum sul numero dei parlamentari, spiegato

Cosa c'è in ballo e come si sono schierati i partiti

(ANSA / FABIO FRUSTACI)
(ANSA / FABIO FRUSTACI)

Il 20 e 21 settembre si vota per un referendum costituzionale sulla riduzione di un terzo del numero dei parlamentari di Camera e Senato. È quindi il caso di sapere come ci si è arrivati, cosa dicono i partiti e quali sono gli argomenti a favore del Sì e del No.

Fino a qui
La riforma costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari era stata approvata all’inizio di ottobre 2019 con il voto favorevole praticamente di tutti i partiti. La legge doveva entrare in vigore a gennaio, ma una richiesta dei senatori, di fatto, l’aveva sospesa rendendo necessario il referendum. Nonostante l’iniziale apparente unanimità nel sostenere la riforma, 71 senatori di vari partiti avevano infatti firmato per indire un referendum costituzionale.

I senatori avevano potuto avanzare la loro richiesta perché le riforme costituzionali hanno un iter parlamentare speciale: se una riforma non ottiene una maggioranza di due terzi da ciascuna delle due camere nel voto finale si hanno tre mesi di tempo per chiedere che sia sottoposta a referendum; servono le firme di un quinto dei membri di una delle due camere – per i senatori la soglia è di 64 – 500.000 elettori o 5 consigli regionali. La proposta sul taglio dei parlamentari era stata firmata da 71 senatori, 7 in più del numero minimo richiesto.

Il referendum avrebbe dovuto svolgersi lo scorso 29 marzo, ma era stato rimandato a causa dell’epidemia da coronavirus. A metà luglio il Consiglio dei ministri aveva stabilito le date del 20 e 21 settembre, accorpando il voto per il referendum confermativo alle regionali e alle elezioni suppletive nei collegi uninominali 3 della Regione Sardegna e 9 della Regione Veneto del Senato e con il voto amministrativo in alcuni comuni.

Il referendum sul taglio dei parlamentari sarà il quarto referendum costituzionale nella storia della Repubblica Italiana (gli altri tre sono stati il referendum sul Titolo V del 2001, quello sulla riforma costituzionale del centrodestra nel 2006 e quello sulla riforma costituzionale voluta dal PD nel 2016).

Cosa prevede e qualche numero
La riforma prevede di ridurre i seggi alla Camera da 630 a 400 e quelli al Senato da 315 a 200: una riduzione di circa un terzo. Oggi ci sono un deputato ogni 96 mila abitanti e un senatore ogni 188 mila abitanti. Con il taglio ci sarebbe un deputato ogni 151 mila abitanti e un senatore ogni 302 mila. Dopo la riforma diminuirebbe dunque sensibilmente il numero di rappresentanti per abitante, ma l’Italia resterebbe comunque nella media degli altri paesi dell’Europa occidentale. Questo perché attualmente l’Italia è il paese con più rappresentanti eletti in numero assoluto (945 tra deputati e senatori) di tutta l’Europa occidentale.

Con l’approvazione della riforma saranno ridotti anche i parlamentari eletti dagli italiani all’estero: passeranno da 12 a 8 e i senatori da 6 a 4. Verrà inoltre stabilito un tetto massimo al numero dei senatori a vita nominati dai presidenti della Repubblica: mai più di 5.

Il referendum sarà confermativo, servirà cioè a confermare l’approvazione di una riforma costituzionale che non ha ottenuto almeno due terzi dei voti in ciascuna camera. Il quesito dice:

“Approvate il testo della Legge Costituzionale concernente “Modifiche degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana – Serie generale – n. 240 del 12 ottobre 2019?”.

Chi vota “sì” sostiene il taglio, chiede che la riforma sia confermata e che entri in vigore. Chi vota “no” ne chiede invece l’abrogazione. Nei referendum costituzionali non si tiene conto del quorum, come nei normali referendum abrogativi. Indipendentemente dal numero di votanti, il risultato quindi viene sempre preso in considerazione.

I partiti e il PD
Il Movimento 5 Stelle è il partito che ha portato avanti e sostenuto la riforma come parte della sua lunga campagna cosiddetta “anti-casta”, ma in realtà quasi tutti i grandi partiti hanno mostrato interesse o simpatia per gli stessi temi (le ultime due riforme costituzionali proposte, e bocciate dagli elettori, prevedevano tra le altre cose anche il taglio del numero dei parlamentari).

Sono contrari alla riforma alcuni piccoli partiti, come i Radicali e Sinistra Italiana, e numerosi singoli parlamentari sparsi tra vari gruppi. Sono favorevoli, oltre al Movimento 5 Stelle, anche la Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia: l’opposizione sosterrà dunque una riforma del governo. Di fatto nessun grande partito si è schierato apertamente per il “no”, ma con il tempo per il PD le cose si sono complicate.

Per quanto inizialmente contrario al taglio, il PD ha cambiato idea lo scorso ottobre, dopo essere andato al governo con il Movimento 5 Stelle e aver sottoscritto un’alleanza che prevedeva l’appoggio alla riforma, ma a certe condizioni. Nicola Zingaretti, segretario del Partito Democratico, aveva condizionato il Sì ad alcune misure di «riequilibrio» e a una modifica condivisa della legge elettorale in senso proporzionale, con sbarramento al 5 per cento. A fine luglio Italia Viva aveva però votato con il centrodestra impedendo alla bozza di riforma della legge elettorale di arrivare in aula a luglio ed essere discussa in commissione (lo sbarramento al 5 per cento, allo stato attuale dei sondaggi, penalizzerebbe il partito di Renzi).

I tempi sono ora piuttosto stretti e a inizio agosto Zingaretti è tornato a chiedere alla maggioranza di rispettare gli accordi sulla legge elettorale: apparentemente Zingaretti considera sbagliata la modifica costituzionale sul numero dei parlamentari – che il PD ha approvato – a meno che non si approvi una nuova legge elettorale. «Rinnovo l’appello alla collaborazione a tutti gli alleati e a fare di tutto affinché, a partire dal testo condiviso dalla maggioranza, si arrivi entro il 20 settembre a un pronunciamento di almeno un ramo del Parlamento». Per Zingaretti, come garanzia per votare Sì, sarebbe dunque sufficiente almeno «un voto» sul testo di legge elettorale proporzionale. Ma all’interno del suo stesso partito ci sono posizioni più decise.

Matteo Orfini, ex presidente del partito, ha detto: «Ci fu garantito che il taglio sarebbe stato preceduto da una nuova legge elettorale proporzionale e accompagnato da modifiche costituzionali che garantissero che quel taglio non sfasciasse l’impianto costituzionale». E ancora: «Quegli impegni non si sono realizzati. E ora come se niente fosse votiamo lo stesso Sì? Praticamente possiamo solo dire sì a ogni capriccio del M5s, anche se si tratta di distruggere la nostra democrazia?».

Gianni Cuperlo ha motivato il suo No parlando di un «taglio dei deputati e dei senatori operato con le cesoie senza un ridisegno del bicameralismo e motivato (…) con la propaganda sui costi della politica». La democrazia, sostiene Cuperlo, non ha prezzo: la riforma non è stata accompagnata dalle misure concordate per garantire un equilibrio a tutela della rappresentanza. Il rischio, dice, è che la rappresentanza venga «soppiantata dalla rappresentazione»: un parlamento ridotto nelle dimensioni finirebbe insomma «con l’essere “nominato” da un gruppo di capi corrente e partito».

Giorgio Gori, sindaco di Bergamo del PD e sostenitore del No, non crede che sia sufficiente la sola riforma della legge elettorale, perché le leggi elettorali si possono sempre rifare e non sono paragonabili alle riforme costituzionali: «Le leggi elettorali si fanno e si disfano. Dal 1990 ben quattro volte. È quindi probabile, sempre che adesso si riesca a votare il proporzionale prima del 20 settembre (non facile) che in futuro cambi ancora. Dobbiamo pensare che il taglio dei parlamentari diventi a quel punto pericoloso per la democrazia?». C’è insomma chi ritiene un errore scambiare una norma di rango costituzionale con una legge ordinaria qual è la legge elettorale.

Sì o No
Gli argomenti a favore del Sì hanno a che fare innanzitutto con la riduzione dei costi della politica e dunque con un risparmio economico per il bilancio dello stato che sarebbe pari a 100 milioni di euro all’anno (ci torniamo).

Nella presentazione della riforma si dice anche che l’obiettivo è «favorire un miglioramento del processo decisionale delle Camere per renderle più capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini». Secondo i favorevoli, il taglio renderebbe dunque il parlamento più efficiente, migliorerebbe «il rapporto tra cittadini e istituzioni» ed eliminerebbe «la frammentazione tra svariati gruppi parlamentari, che a volte non rappresentano le principali forze politiche presenti nel paese ma gruppetti che servono solo a organizzare la sopravvivenza sulla poltrona».

Stefano Ceccanti, deputato del Partito Democratico, ha poi spiegato in un’intervista a Repubblica che il parlamento «non ha più l’esclusiva nella produzione di norme»: le regioni hanno cioè potere legislativo così come è in crescita il «rilievo normativo dell’Unione europea». L’attuale numero di deputati e senatori era basato sull’idea «che il parlamento fosse in sostanza esclusivo della produzione normativa vigente», ma visto che questo assetto «monopolistico» si è modificato il taglio è una naturale conseguenza che porterà automaticamente a un sistema più funzionale. Altri, in modo simile, sostengono che vada preso atto della crisi della democrazia rappresentativa e che dunque, invece di difendere le istituzioni così come sono, sia necessario rinnovarle.

Non ci sarebbe dunque alcun rischio per la democrazia, il cui principale problema non sarebbe quello della scarsa rappresentatività, ma quello di una generale inefficacia da un punto di vista di gestione. La tappa della riduzione del numero dei parlamentari sarebbe poi solo un punto di partenza, non di arrivo: ma il primo e il più significativo per procedere successivamente con altre riforme necessarie a eliminare il malfunzionamento delle istituzioni.

Il taglio del numero dei parlamentari è stato invece molto criticato e argomentato da diversi esperti e giuristi, secondo i quali non porterebbe solo a una riduzione numerica. Il referendum non sarà accompagnato da una riforma più ampia sul funzionamento del parlamento, cosa che potrebbe consentire alla riduzione di renderlo realmente più efficiente.

Verrebbe poi distorto il rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Il Senato, ha spiegato Lorenzo Cuocolo, professore di Diritto costituzionale comparato ed europeo all’Università di Genova, in base alla Costituzione deve essere eletto su base regionale: «È evidente che le Regioni più piccole – come la Liguria – avranno una grande difficoltà ad essere compiutamente rappresentate in Senato, sia con esponenti della maggioranza, sia con esponenti delle minoranze. La riforma avrà un effetto iper-selettivo, limitando sensibilmente la voce in Parlamento delle forze minori e distorcendo la rappresentanza a vantaggio dei territori più popolosi».

Oltre al problema di rappresentanza legato alla penalizzazione di alcuni territori, si pone un problema di rappresentanza in generale: aumenterebbe cioè il rapporto tra il numero degli abitanti e il numero dei parlamentari (deputati e senatori). E più è alto questo rapporto, spiega Il Manifesto, «meno i cittadini sono rappresentati, nel senso che un parlamentare deve rappresentare una fetta maggiore di “popolo”».

I gruppi parlamentari diventerebbero più piccoli e facilmente controllabili da leader e segretari. E questo, ha argomentato Alessandro Calvi su Internazionale, potrebbe avere delle conseguenze sull’equilibrio tra i poteri dello stato. Più in generale il taglio dei parlamentari rischierebbe di allontanare ulteriormente l’elettorato dalla politica. Se la riforma venisse approvata, l’Italia diventerebbe il grande paese europeo con il Parlamento più piccolo in proporzione alla popolazione.

Infine. Per i sostenitori del No, l’argomento economico non regge per due motivi. Il primo si potrebbe riassumere nella formula che “la democrazia non ha prezzo” e che se la logica è quella dello spendere meno potrebbe sempre arrivare qualcuno, in futuro, a proporre un risparmio ancora maggiore. Ma l’argomento economico non starebbe in piedi di per sé. Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, in un editoriale pubblicato oggi ha spiegato che secondo l’Osservatorio dei conti pubblici italiani di Carlo Cottarelli, i risparmi sarebbero non di 100, ma di 57 milioni l’anno: «Ovvero una cifra significativamente più bassa di quella enfatizzata dai sostenitori della riforma», pari allo 0,007 per cento della spesa pubblica italiana. Dividendo il risparmio annuo per tutta la popolazione italiana, l’Osservatorio ha fatto sapere che si tratterebbe dell’equivalente di un caffè (95 centesimi) all’anno per ciascun italiano.