Le isole di Vanuatu stanno resistendo vendendo passaporti
Lo facevano già prima, ma con la pandemia e il ciclone che si è abbattuto sul Pacifico è diventata la loro fonte di ricavi più importante
Nello stato di Vanuatu, un arcipelago di circa 80 isole nell’oceano Pacifico, il bilancio economico dei primi sei mesi del 2020 si è chiuso con un incremento di circa 34 milioni di dollari rispetto all’anno scorso e ci si aspetta un secondo semestre altrettanto positivo. Quasi la totalità dei ricavi arriva da un programma di cittadinanza per investimenti – cioè di vendita di passaporti – che da solo è riuscito a compensare le perdite dovute alla pandemia da coronavirus e ad Harold, il ciclone tropicale che ad aprile ha distrutto decine di isole nel Pacifico.
Dall’inizio dell’anno già 650 persone hanno comprato un passaporto vanuatuano: di questi quasi nessuno è mai stato a Vanuatu e probabilmente non ha intenzione di andarci. I più interessati all’acquisto sono cittadini di paesi come la Cina, i cui passaporti impongono molti limiti agli spostamenti internazionali: il passaporto vanuatuano infatti permette di entrare in 130 paesi (tra cui Unione Europea, Regno Unito, Russia e Hong Kong) senza richiedere il visto, ed è 42esimo su 199 nella graduatoria dei passaporti più potenti al mondo.
Il programma di cittadinanza per investimenti nello stato di Vanuatu esiste dal 2016 e da allora ha portato ricavi per diversi milioni di dollari. Quest’anno alla fine di giugno la rendita era di 62milioni di dollari, circa l’80 per cento di quello che era stato pronosticato per l’intero anno, e a metà agosto i proventi sono saliti a 84 milioni, superandolo. Vanuatu non è l’unico paese che prevede una formula simile: per esempio in alcuni stati europei e statunitensi sono richiesti investimenti imprenditoriali o in titoli di stato in cambio di passaporti e permessi di soggiorno.
Il modello di Vanuatu è però in un certo senso unico: un passaporto costa al pubblico 130mila dollari, e di questi 80mila vanno allo stato e i restanti 50mila vanno all’agente che si occupa della vendita, che può essere un cittadino di origini vanuatuane o naturalizzato. Dei guadagni dell’agente, poi, il 15 per cento vanno in tasse. Non sono richiesti particolari requisiti agli acquirenti, nemmeno la proprietà di immobili nell’arcipelago o il trasferimento della residenza, anche se alcune agenzie chiedono ai loro clienti di avere la fedina penale pulita.
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Negli ultimi anni il programma di cittadinanza per investimenti di Vanuatu è stato molto contestato, anche dalla popolazione locale, e ha rischiato spesso di mettere a rischio i rapporti diplomatici con altri paesi. Per esempio nel 2019 furono venduti passaporti a quattro cittadini cinesi che poi si scoprirono essere ricercati dall’Interpol, l’organizzazione internazionale per la cooperazione delle forze di polizia. Per andare incontro alle contestazioni provenienti dall’opposizione di governo e dalla comunità internazionale, a marzo il primo ministro Bob Loughman aveva commissionato all’ex primo ministro Ronald Warsal di presiedere una commissione di revisione del programma.
Prima della pandemia la principale attività economica dell’arcipelago era il turismo, che dava lavoro a circa un terzo della popolazione. Con l’emergenza sanitaria e la chiusura dei confini, però, i proventi da questo settore si sono ridotti a zero e a questo si sono sommati circa 100 milioni di dollari di danni causati dal ciclone Harold. In questo contesto disastroso, a maggio Warsal dichiarò che i ricavi del programma erano essenziali per salvare l’economia e che non ci sarebbero stati cambiamenti. Da quel momento il numero di licenze per diventare agenti di vendita di passaporti è duplicato.
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Già prima della crisi economica di quest’anno comunque il programma di cittadinanza si era rivelato per Vanuatu una fonte importante di ricavi e aveva permesso di ripagare debiti e accumulare liquidità. Soprattutto, aveva permesso all’arcipelago di limitare la sua dipendenza dalla Cina, dai cui prestiti dipendono molti piccoli stati della zona. E anche il pacchetto di salvataggio varato nei mesi dell’emergenza sanitaria non sarebbe potuto esistere se le casse dello stato non fossero state piene.