Lev Trotsky morì 80 anni fa
Fu uno dei principali ideologi della rivoluzione russa e il più temuto oppositore di Stalin, che lo fece uccidere inviando un agente segreto in Messico
Lev Davidovič Bronštejn, meglio conosciuto come Lev Trotsky, fu uno dei grandi intellettuali e ideologi della rivoluzione russa, organizzatore e guida dell’Armata Rossa, il teorico della rivoluzione permanente e del primato dei Soviet sul partito, nonché il più temuto oppositore di Stalin. Aveva 26 anni ai tempi della Rivoluzione russa del 1905 e ne aveva 38 quando nel 1917 l’assalto al Palazzo d’inverno, sede ufficiale del governo russo, portò alla creazione dell’Unione Sovietica. Il 21 agosto del 1940 in Messico, dove da tre anni si trovava in esilio, Trotsky morì dopo essere stato colpito alla testa con una piccozza da Ramón Mercader, un agente segreto sovietico.
Trotsky era nato nell’attuale Ucraina il 7 novembre del 1879, lo stesso anno di Stalin. Proveniva da una famiglia borghese di origine ebraica, studiò a Odessa e poi a Nikolaev, dove contribuì ad organizzare un gruppo clandestino: l’Unione degli operai della Russia meridionale. Nel 1898 venne arrestato e condannato, senza processo, a quattro anni di esilio in Siberia. Fu durante la detenzione che si avvicinò al marxismo, entrando a far parte dell’Unione siberiana, un’organizzazione socialdemocratica creata fra i deportati e gli operai della ferrovia transiberiana. A Londra, dove scappò, entrò in contatto con Lenin e il Partito Operaio Socialdemocratico Russo, nato per unificare i diversi gruppi rivoluzionari russi allora attivi.
Rientrato clandestinamente a San Pietroburgo, prese parte ai primi moti anti-zaristi appoggiando la Rivoluzione armata del 1905. Venne di nuovo arrestato e condannato all’esilio a vita. Tornò a Londra, poi a Vienna, si trasferì in Svizzera, quindi in Francia e fece ritorno in Russia nel maggio del 1917.
Dal 1914 la Russia combatteva nella Prima guerra mondiale. Gli eserciti dello zar avevano subìto una sconfitta dietro l’altra, mentre le loro poche vittorie erano state sanguinose e futili. Nel 1916 i soldati erano stanchi di combattere, la situazione economica era disastrosa, mancavano cibo e beni di prima necessità. La popolazione delle grandi città, gli intellettuali e le forze politiche democratiche e intellettuali ne avevano oramai abbastanza del regime zarista.
All’inizio del 1917 una serie di proteste nella capitale Pietrogrado (il cui nome era stato cambiato perché San Pietroburgo aveva un suono troppo tedesco) si trasformò in un’insurrezione generale. Dopo tre giorni di scioperi e scontri lo zar decise di abdicare: venne creato un governo provvisorio, formato in gran parte da liberali e da forze della sinistra moderata, e accanto al governo nacquero i “Soviet”, assemblee spontanee di soldati e operai in cui erano molto forti i partiti della sinistra più radicale: socialisti rivoluzionari, menscevichi e soprattutto quelli che sarebbero divenuti più famosi di tutti, cioè i bolscevichi.
Per otto mesi la Russia fu governata con crescenti tensioni da queste diverse fazioni, e con il passare dei mesi le loro posizioni si fecero sempre più distanti. I più moderati tra i leader dei Soviet si avvicinarono al governo provvisorio, tanto che uno dei loro leader, il socialista rivoluzionario Aleksandr Kerenskij, un famoso avvocato da anni impegnato in politica, ne divenne il capo. Dalla parte opposta anche la sinistra estrema divenne sempre più radicale. Ad aprile i bolscevichi ricevettero un inaspettato regalo quando il governo tedesco – all’epoca ancora in guerra con la Russia – aiutò Lenin a raggiungere Pietrogrado, trasportandolo dalla Svizzera, dove si trovava in esilio, fino alla Finlandia e da lì in Russia. Sotto la guida di Trotsky e di Lenin i bolscevichi misero in atto un’offensiva propagandistica basata su un programma scritto per attrarre le masse operaie delle grandi città e i soldati dell’esercito, iniziando apertamente anche a raccogliere le forze con cui rimuovere il governo.
Il 7 novembre del 1917, con l’assalto al Palazzo d’inverno (momento culminante della Rivoluzione di Ottobre), un comitato militare rivoluzionario presieduto da Trotsky prese il potere. Due giorni dopo Lenin formò il primo governo bolscevico e Trotsky venne nominato Commissario del popolo per gli affari esteri. Il suo primo incarico fu il negoziato di una pace con la Germania, che venne firmata nel marzo del 1918. Ma questo non portò la pace in Russia. Iniziò una guerra civile tra i bolscevichi e le forze rimaste fedeli allo zar, che si erano riorganizzate alla periferia dell’impero e avevano ricevuto aiuti e finanziamenti dalle potenze occidentali. La cosiddetta Armata Bianca nel giro di poco tempo avanzò fino a occupare i nove decimi dell’intero territorio russo; Lenin aveva affidato a Trotsky – che non aveva alcuna esperienza militare – l’incarico di formare un esercito, praticamente dal nulla. Nacque così l’Armata Rossa, che dopo cinque anni vinse la guerra civile.
Nel 1923, sconfitti i Bianchi, venne proclamato il nuovo stato federale, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, con a capo Lenin, oramai malato e indebolito. Nelle sue ultime lettere, scritte tra il dicembre del 1922 e il gennaio del 1923, Lenin lasciò le sue ultime volontà: linee guida per una riforma del partito e personali opinioni sui vari leader. Fu particolarmente duro con Stalin e lasciò intendere che Trotsky fosse il successore più adatto. Il testamento di Lenin, come vennero ribattezzate quelle lettere, fu però occultato da Stalin, che ormai controllava di fatto l’intera macchina del partito. Quando Lenin morì, Stalin impedì a Trotsky di partecipare al funerale, inviando un telegramma con una falsa data.
A un anno dalla morte di Lenin, il contrasto tra Trotsky e Stalin divenne radicale. Trotsky sosteneva la tesi della “rivoluzione permanente” già presente nei testi di Marx ed Engels, considerata non un fine in sé ma un «anello della catena internazionale. La rivoluzione mondiale, nonostante i ripiegamenti e i riflussi temporanei, costituisce un processo permanente». Stalin intendeva invece consolidare lo stato e il regime sovietico secondo la teoria del socialismo in un solo paese, e con il partito dalla sua parte, vinse.
Nel 1925 Trotsky fu costretto a dimettersi da tutti i suoi incarichi, nel 1926 venne escluso dal Politburo, nel 1927 dal comitato centrale e infine dal partito. Nel 1929 venne espulso dall’URSS per ordine di Stalin e si imbarcò su una nave diretta in Turchia, ricevendo una misera cifra in denaro per i servizi resi. Per sfuggire al controllo della polizia staliniana cercò accoglienza in altri paesi, decidendo alla fine di stabilirsi in Messico. Visse a casa del pittore Diego Rivera, poi di Frida Kahlo e si stabilì infine a Coyoacán.
Seppur in esilio, Trotsky non si ritirò. Nel 1933, quando Hitler prese il potere in Germania, accusò Stalin di non aver sufficientemente appoggiato la possibilità di una rivoluzione proletaria in Germania. Nel 1936, dopo la nascita dei fronti popolari in Spagna e in Francia, vide nella nuova collaborazione tra i comunisti e i cosiddetti partiti borghesi un tradimento della purezza rivoluzionaria. I trotskisti vennero a loro volta accusati di dividere le forze di sinistra e quando in Spagna iniziò la guerra civile, da parte della polizia segreta comunista cominciò l’epurazione dei seguaci di Trotsky dalle brigate internazionali.
Nel 1938 Trotsky fondò una nuova organizzazione marxista internazionalista, la Quarta Internazionale, come alternativa alla Terza Internazionale stalinista, e il tribunale di Mosca lo condannò in contumacia alla pena di morte. In Messico, il 23 maggio del 1940 sfuggì a un primo tentativo di assassinio. L’8 giugno dello stesso anno, in una sorta di profezia, disse: «L’attentato sarà ripetuto certamente. Sotto che forma? Forse sarà un attacco terroristico o forse sarà l’azione di un singolo che si accaparrerà la mia fiducia».
Così fu. Nell’agosto del 1940 Ramón Mercader, un agente sovietico, venne introdotto a casa di Trotsky. Era arrivato in Messico con un falso passaporto spacciandosi per un comunista trotskista canadese. Mentre Trotsky correggeva un manoscritto, Mercader lo colpì alla testa con una piccozza da alpinista. Trotsky si rialzò nonostante il colpo subìto, reagì all’aggressione, chiamò le guardie e poi si accasciò. Morì il giorno dopo, il 21 agosto, in ospedale.
In quello che viene considerato il suo testamento, scrisse:
«Per quarantatré anni della mia vita cosciente sono rimasto un rivoluzionario; per quarantadue ho lottato sotto la bandiera del marxismo. Se dovessi ricominciare tutto dapprincipio, cercherei naturalmente di evitare questo o quell’errore, ma il corso della mia vita resterebbe sostanzialmente immutato. Morirò da rivoluzionario proletario, da marxista, da materialista dialettico e quindi da ateo inconciliabile. La mia fede nell’avvenire comunista del genere umano non è meno ardente che nei giorni della mia giovinezza, anzi è ancora più salda.
Natascia (la moglie, ndr) si è appena avvicinata alla finestra che dà sul cortile e l’ha aperta in modo che l’aria entri più liberamente nella mia stanza. Posso vedere la lucida striscia verde dell’erba ai piedi del muro, e il limpido cielo azzurro al di sopra del muro, e sole dappertutto.
La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione e violenza, e goderla in tutto il suo splendore».