Google contro la legge australiana su Google
È ancora una bozza, ma prevede che Google paghi editori e giornali per mostrare le anteprime delle notizie: per ora le parti sono mooooolto distanti
Da mesi il governo australiano si sta muovendo per obbligare le grandi piattaforme digitali come Google e Facebook a pagare per le notizie di cui mostrano le anteprime, riprendendole dai siti d’informazione. Se ne era parlato già ad aprile, quando Josh Frydenberg, ministro del Tesoro, aveva annunciato di aver dato mandato all’ACCC, l’ente che si occupa della vigilanza sulla concorrenza, di produrre entro luglio un codice di condotta che obbligasse Google e Facebook a pagare gli editori per i contenuti che quelle piattaforme prendono dai siti di notizie. Ora se ne sta riparlando con toni molto più duri di allora, dopo che il 31 luglio è stata pubblicata una prima bozza del codice.
Il codice preparato dall’ACCC, infatti, non è per niente piaciuto a Google, che lo ha criticato in una lettera aperta e che sta cercando di portare dalla sua parte i cittadini australiani. In risposta l’ACCC ha pubblicato a sua volta una dura lettera. Ieri si è schierato contro Google anche l’Australia Institute’s Centre for Responsible Technology, un centro di ricerche indipendente, che ha accusato l’azienda di aver «distrutto un modello di business che ha supportato il giornalismo indipendente per più di 150 anni».
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Cosa dice il codice
Il codice di regolamentazione preparato dall’ACCC nasce da un’inchiesta del 2019, sempre dell’ACCC, sul ruolo di piattaforme digitali e social network in Australia: l’inchiesta aveva mostrato che Google e Facebook ottenessero la maggior parte dei profitti dalla pubblicità online, nonostante molti dei contenuti che pubblicavano sulle loro piattaforme provenissero da siti di notizie.
È un tema su cui si discute da molti anni, in tutto il mondo. Google, Facebook e altre grandi piattaforme guadagnano tra le altre cose con la pubblicità che viene mostrata sulle loro pagine, anche quando le pagine includono contenuti prodotti dai siti di news oltre a quelli prodotti dagli utenti. Google e Facebook portano così molto traffico ai siti di news, ma secondo molti editori i giornali che producono le notizie dovrebbero ottenere anche parte dei ricavi che quelle notizie generano per Google e Facebook.
Come sintetizzato da Politico, il codice prevede «che gli editori e le piattaforme digitali partecipino in modo individuale o collettivo a una negoziazione di tre mesi, in cui cercare di accordarsi su adeguati pagamenti», e che qualora non venisse trovato un accordo soddisfacente per tutte le parti in causa subentri «un arbitro imparziale che scelga, entro 45 giorni, quale delle due parti ha fatto l’offerta più ragionevole». Allo stato attuale il codice riguarda solo Google e Facebook (che ha reagito in modo meno duro rispetto a Google), ma è possibile che altre piattaforme verranno aggiunte in seguito. La sanzione massima nel caso in cui Google non rispetti il codice potrebbe arrivare a diversi milioni di dollari per ogni infrazione.
Politico ha spiegato inoltre che Frydenberg – secondo il quale «c’è in gioco il futuro dei media australiani» – intende portare il codice in parlamento per farlo approvare entro la fine dell’anno.
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La lettera di Google
Google ha risposto con una serie di messaggi rivolti ai suoi utenti – presentati, tra le altre cose, direttamente nella pagina principale di Google Australia – in cui diceva che le nuove regole avrebbero peggiorato la qualità dei suoi servizi, volendo mantenerli comunque gratuiti per tutti. Google ha chiesto anche a chi usa YouTube, che controlla, di mandare quanti più messaggi possibili ai politici australiani per protestare contro l’ACCC.
Google ha sostenuto che la nuova legge la obbligherebbe a fornire agli editori informazioni e dati utili a capire meglio cosa serva per far apparire un articolo o un sito più in alto nei risultati di Google (o di Google Notizie). Google ritiene che in questo caso gli editori avrebbero «un ingiusto vantaggio» rispetto a chiunque altro rispetto al posizionamento sul motore di ricerca.
La tesi di Google è quindi che per fare accordi di pagamento con editori e giornali online, l’azienda dovrebbe comunicare loro una serie di informazioni su come funzionano gli algoritmi di Google e su cosa fanno gli utenti su Google. Informazioni che l’azienda vuole tenere per sé, a suo dire per poterle meglio controllare e per garantire un servizio equo.
Google ha anche specificato di «credere molto nell’importanza del giornalismo», e ha aggiunto: «Facciamo già accordi con gli editori australiani, e già paghiamo loro milioni di dollari l’anno e facciamo arrivare loro miliardi di click gratuiti ogni anni». Ritiene però che «anziché incoraggiare certi tipi di collaborazione, la legge voglia dare alle grandi aziende editoriali un trattamento privilegiato».
Google Search and YouTube are now at risk in Australia. A new Gov law would force Google to provide you with dramatically worse products, could lead to your data being handed over to big news businesses, & may affect your ability to use these free services https://t.co/87VDbtVjqC pic.twitter.com/PRVZN7NkZv
— googledownunder (@googledownunder) August 17, 2020
La risposta dell’ACCC
Alla lettera di Google, l’ACCC ha risposto spiegando di ritenere che quella lettera contenesse «informazioni sbagliate» e ricordando che «a Google non sarà chiesto di far pagare ai cittadini australiani l’uso di servizi gratuiti». Se dovesse succedere, «sarebbe solo una scelta di Google». Secondo l’ACCC a Google non sarà nemmeno richiesto di «condividere informazioni e dati sugli utenti»: la legge ha il solo scopo di «risolvere uno sbilanciamento negoziale tra i siti d’informazione australiani e piattaforme come Google e Facebook».
Posizioni simili sono state prese anche dell’Australia Institute’s Centre for Responsible Technology, con una lettera pubblicata martedì mattina sul Sydney Morning Herald, uno dei principali quotidiani del paese. Più dura di quella dell’ACCC, la lettera ha accusato Google di «usare il potere derivato dall’essere una delle più grandi aziende al mondo per fare minacce», nello specifico di minacciare di rendere a pagamento l’uso delle ricerche su Google solo perché all’azienda è stato chiesto di «considerare l’ipotesi di pagare un’adeguata somma di denaro per il giornalismo da cui trae beneficio».