Cinque cose sul rapporto finale su Trump e la Russia
Lo ha diffuso il Senato alla fine di un'indagine bipartisan, e accerta molti rapporti tra il comitato del presidente, Wikileaks e i servizi segreti di Putin
La commissione del Senato statunitense che si occupa di intelligence ha diffuso le conclusioni della propria indagine sull’ingerenza del governo russo nelle elezioni presidenziali del 2016, in cui ha favorito apertamente il candidato Repubblicano, cioè il presidente in carica Donald Trump. Il rapporto è lungo 966 pagine, è uscito a circa tre anni di distanza dall’inizio dell’indagine, e i contenuti sono stati concordati fra i Democratici – che al Senato stanno all’opposizione – e i Repubblicani, che invece hanno la maggioranza.
Il rapporto era l’ultimo atteso documento ufficiale sull’ingerenza russa, dopo quello diffuso da un’analoga commissione della Camera nel 2018 e quello pubblicato dal procuratore speciale Robert Mueller, diffuso nel 2019. In estrema sintesi, il rapporto corrobora la ricostruzione fatta in questi anni dalle altre indagini e dai giornali: il governo russo ha cercato attivamente di aiutare Trump a vincere le elezioni con vari mezzi, e nel corso della campagna elettorale più di un funzionario legato a Trump ha avuto contatti, a volte anche molto ristretti, con funzionari russi.
Come il rapporto diffuso da Mueller, però, quello del Senato non conclude che fra il comitato Trump e il governo russo ci sia stata una vera collaborazione: Mueller aveva citato perlopiù ragioni legali – il suo ufficio era giunto alla conclusione che non poteva incriminare Trump, per legge, a prescindere dalla sua eventuale colpevolezza – mentre il Senato lo ha fatto per ragioni politiche, dato che il testo finale doveva essere concordato anche dai Repubblicani.
Nonostante ciò, il documento contiene comunque una serie di informazioni rilevanti che approfondiscono diversi aspetti della storia, fra cui il ruolo di alcuni personaggi finora poco noti, e alcune vicende di cui si era parlato solo superficialmente.
1. Il ruolo di Wikileaks
Il 7 ottobre 2016 fu un giorno decisivo nella campagna elettorale delle elezioni presidenziali. Intorno alle 16 fu diffuso un vecchio video in cui Trump si vantava di molestare le donne. Circa mezz’ora dopo Wikileaks, l’associazione di attivisti fondata da Julian Assange che pubblica documenti riservati, annunciò su Twitter di avere pubblicato circa duemila mail del capo del comitato elettorale di Clinton, John Podesta.
Le mail erano state sottratte al Partito Democratico dai servizi segreti russi, come noto: la novità contenuta dal rapporto del Senato è che probabilmente sono state diffuse da Wikileaks d’accordo col comitato elettorale di Trump, che aveva tutto l’interesse affinché l’attenzione dei giornali fosse distratta dal video.
Il comitato Trump aveva saputo in anticipo della diffusione delle mail, tanto che i consiglieri di Trump discussero come utilizzarle nella propria strategia. La notizia gli era nota almeno dal 6 ottobre 2016, quando Roger Stone – a lungo amico e collaboratore di Trump, che qualche mese fa ha commutato la sua pena – twittò che presto Wikileaks avrebbe diffuso del materiale compromettente su Clinton. Quel giorno Stone sentì Trump al telefono, e il rapporto del Senato conclude che «quasi certamente, date le informazioni che possediamo, parlarono di Wikileaks».
Il giorno successivo, secondo un blogger complottista in contatto sia con Stone sia con Wikileaks, Stone gli chiese di «far uscire subito le cose di Podesta» per «bilanciare la copertura dei giornali». Quel pomeriggio effettivamente Wikileaks diffuse le mail di Podesta, che Trump utilizzò più volte nei suoi comizi per attaccare Clinton.
Il Senato non ha trovato ulteriori indicazioni che la diffusione delle mail sia stata richiesta esplicitamente dal comitato elettorale di Trump: ma i contatti di Stone rivelati nel rapporto, uniti ad altre informazioni già note – il legame accertato fra Wikileaks e il governo russo, quello fra il figlio maggiore di Trump e Wikileaks– fanno pensare che il rapporto fra Wikileaks e il comitato di Trump fosse piuttosto consolidato.
2. L’ex capo del comitato di Trump era in mano ai russi
Il rapporto definisce più chiaramente il legame fra Paul Manafort – ex consulente Repubblicano che aveva lavorato spesso con politici filorussi in Ucraina, capo del comitato elettorale di Trump dal febbraio all’agosto 2016, poi condannato a sette anni e mezzo di carcere per reati fiscali e ostruzione alla giustizia – e il governo russo. Nel documento si arriva a definire Manafort «una grave minaccia alla sicurezza» degli Stati Uniti, la cui presenza nel comitato elettorale di Trump «creò varie opportunità per i servizi segreti russi di ottenere influenza e acquisire informazioni confidenziali sul comitato». Il Senato, insomma, considera Manafort alla stregua di una spia del governo russo.
Fra i suoi contatti più stretti, fra l’altro, c’era anche una vera spia russa: Kostantin Kilimnik, che nel documento viene citato più di 800 volte, e di cui fino a poche ore fa si sapeva pochissimo. Secondo una sintesi del New York Times, Manafort e Kilimnik si scambiarono informazioni e pareri per tutta la campagna elettorale, compresi «alcuni messaggi per un gruppo di oligarchi russi, e importantissime informazioni politiche di cui disponeva il comitato Trump», che verosimilmente Kilimnik poi girava al governo russo. Secondo il rapporto, Manafort e Kilimnki discussero anche di un eventuale piano di pace fra Russia e Ucraina che fosse sbilanciato a favore della Russia.
Negli ultimi tempi Trump ha cercato di minimizzare il suo rapporto con Manafort – un tentativo complesso, dato che guidò la sua campagna elettorale per mesi: fu lui, per esempio, a spingere per candidare Mike Pence alla vicepresidenza – ma al tempo stesso ha ventilato la possibilità di dargli la grazia.
Il rapporto contiene anche alcune informazioni che legano Kilimnik al furto di mail a Podesta, che testimoniano la sua centralità nella storia: come diversi altri passaggi del documento, però, il paragrafo che ne parla è oscurato per ragioni di sicurezza.
3. Il presunto video compromettente su Trump
Il rapporto contiene numerosi dettagli su un video di cui si vocifera almeno dal 2018, relativo alla visita di Trump a Mosca nel 2013 per una serata del concorso Miss Universo, gestito allora da Trump (è un video diverso da quello citato della cosiddetta “golden shower”, di cui ancora oggi non è chiara l’esistenza). Fin dall’inizio dell’indagine diversi giornalisti hanno avanzato l’ipotesi che il governo russo possieda un video imbarazzante su Trump: il rapporto del Senato non contiene particolari novità, ma aggiunge dettagli su un video di cui finora si sapeva assai poco.
Un dirigente della catena di hotel che ospitò Trump a Mosca ricorda di avere sentito due suoi colleghi che parlavano di un video girato nell’ascensore dell’hotel in cui dormiva Trump, in cui si vedevano lui e un gruppo di prostitute. Il dirigente sostiene che i due colleghi – uno dei quali sosteneva di avere visto il video coi suoi occhi – si allontanarono prima di scendere nei dettagli.
Michael Cohen, l’ex tuttofare di Trump che ha testimoniato contro di lui nelle varie indagini di questa storia, ha raccontato che nel corso degli anni sei persone lo hanno contattato per parlare del presunto video, una delle quali aveva esplicitamente chiesto soldi per non renderlo pubblico. All’epoca Cohen ne parlò con Trump, il quale negò l’esistenza del video ma chiese a Cohen di capire da dove arrivassero queste voci. Del video, però, non si è più saputo nulla.
4. L’Ucraina non ha interferito nelle elezioni del 2016
In una nota a pagina 108, il rapporto smonta definitivamente una delle teorie complottiste più surreali diffuse da Trump negli ultimi due anni: cioè che sia stato il governo ucraino, e non quello russo, a interferire nelle elezioni del 2016; e non per aiutare Trump, bensì a favore di Clinton. È la teoria, promossa soprattutto da giornali complottisti di destra, che portò Trump a fare pressioni sul governo ucraino affinché aprisse un’inchiesta nei confronti del figlio di Joe Biden, che faceva parte del consiglio di amministrazione di una importante società ucraina di energia, e molti mesi dopo all’apertura di una procedura di impeachment nei confronti di Trump per aver fatto pressione su un paese straniero per trovare materiale imbarazzante sul suo avversario. Il rapporto sostiene che durante le indagini «il comitato non ha trovato nessuna prova affidabile sul fatto che il governo ucraino abbia interferito con le elezioni del 2016».
5. Non solo Trump
Il rapporto ha trovato diverse prove del fatto che il governo russo stava cercando di influenzare il dibattito politico statunitense ancora prima della candidatura di Trump: più nello specifico, come ha sintetizzato il New York Times, sono stati individuati «sforzi lunghi anni per influenzare politici Repubblicani e leader conservatori per plasmare la politica estera americana a vantaggio di Mosca».
Fra questi sforzi, per esempio, c’è il ruolo di Maria Butina, una donna russa che a partire dal 2013, secondo il rapporto, «stabilì un’ampia rete di relazioni con la NRA [la principale lobby americana dei possessori di armi], consulenti politici conservatori, funzionari Repubblicani e persone vicine al comitato elettorale di Trump».
Per anni Butina si è finta un’attivista di una inesistente lobby russa a favore dei possessori di armi, e grazie alle sue credenziali riuscì ad avvicinare diverse figure molto rilevanti in quell’ambiente, fra cui l’ex presidente dell’NRA, David Keene. Durante un incontro organizzato a Mosca, poi, Butina entrò in contatto con Paul Erickson, un Repubblicano del South Dakota che tra le altre cose aveva partecipato alla gestione delle campagne elettorali di diversi candidati conservatori. Tra i due sarebbe in seguito nata una relazione sentimentale, secondo i magistrati cercata e voluta da Butina per avere più contatti negli Stati Uniti.
La storia di Butina era già nota da mesi ai giornali – nell’autunno del 2019 Butina è stata deportata in Russia dopo aver scontato una condanna di un anno e tre mesi per spionaggio – ma è la prima che viene inserita in un contesto più ampio, lasciando intendere che il tentativo di infiltrare il comitato elettorale di Trump fosse solo una delle operazioni dei servizi segreti russi attive negli Stati Uniti (secondo il rapporto, Butina non stabilì un rapporto diretto col comitato elettorale di Trump).
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