Francesco Cossiga non era come gli altri
Dieci anni fa morì uno dei personaggi politici più singolari e controversi della Prima Repubblica
di Mario Macchioni
Mancavano venti minuti alle 19 del 25 aprile del 1992 quando Francesco Cossiga iniziò il discorso con cui annunciava le sue dimissioni da presidente della Repubblica. In diretta e a reti unificate, confermò una notizia che era stata anticipata quella mattina dal Corriere della Sera. Iniziò a parlare alle 18.38. Si rivolse ai giornalisti annunciando le sue dimissioni e insistendo su un punto: i grandi cambiamenti che aveva avuto il «privilegio» di osservare a livello internazionale. Poi all’improvviso si rivolse «ai giovani», disse che voleva dire loro qualcosa, si fermò e, visibilmente commosso, bevve un bicchiere d’acqua.
Cossiga chiese ai giovani «di amare la patria, di onorare la nazione, di servire la Repubblica, di credere nella libertà e di credere nel nostro paese», e lo fece scandendo ciascuna richiesta con le dita. Ai giornalisti presenti e agli altri spettatori chiese infine di «avere fiducia in voi stessi».
La scelta di dare le dimissioni con due mesi di anticipo sulla naturale scadenza del mandato, annunciandole polemicamente il giorno della Festa della liberazione, dice molto del temperamento di Cossiga. La sua lunga e controversa carriera politica, precoce e diversa da quella di tutti gli altri politici della cosiddetta Prima Repubblica, è stata influenzata molto dal suo protagonismo, dal suo carattere fuori dagli schemi della sua epoca, i cui tratti si accentuarono con l’età e che fu sintetizzato con efficacia dal soprannome che gli diede il giornalista Filippo Ceccarelli, lo “sciamano”.
Cossiga fu a lungo il più giovane segretario alla Difesa e il più giovane ministro dell’Interno, e ancora oggi è il più giovane della storia a essere stato eletto presidente della Repubblica. Dopo le dimissioni rimase senatore a vita per 18 anni, fino alla sua morte avvenuta il 17 agosto del 2010, dieci anni fa.
Gli inizi della carriera
Cossiga veniva da un’importante famiglia sassarese, diversi membri della quale avevano alte cariche nella magistratura. Anche lui studiò legge e già allora dimostrò una certa precocità, laureandosi a 19 anni e mezzo dopo essersi diplomato a 16 anni. Da quando aveva 17 anni fu iscritto alla Democrazia Cristiana e a 20 anni, nel 1948, entrò a far parte di una struttura clandestina anti-comunista che si formò a Sassari sotto la guida di Antonio Segni, futuro presidente della Repubblica nei primi anni Sessanta. A rivelarne l’esistenza fu Cossiga stesso, diversi anni più tardi: «Segni mi mandò a prendere le armi in previsione di un possibile tentativo comunista di golpe dopo l’attentato a Togliatti e come risposta alla vittoria elettorale della DC», raccontò nel 1992 al quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, in una delle sue tante interviste in cui si esprimeva su fatti storici sensibili e controversi.
La carriera di Cossiga ad alti livelli cominciò negli anni Settanta, con la prima nomina a ministro, quando aveva già accumulato esperienze da deputato, da sottosegretario e da leader dei “Giovani turchi”, la corrente con cui alla fine degli anni Cinquanta aveva preso il potere nella DC sassarese, ancora una volta appoggiato dal più anziano Segni.
Da sottosegretario alla Difesa, Cossiga si trovò ad avere un ruolo importante in una vicenda oscura dei primi anni Sessanta, quella del cosiddetto “piano Solo”: un piano segreto per un colpo di stato (o presunto tale) ideato dal generale dei Carabinieri e capo dei servizi segreti militari Giovanni De Lorenzo. La minaccia di attuare questo piano sarebbe servita a ridimensionare le richieste del Partito Socialista, in particolare del segretario Pietro Nenni, che stava trattando con il democristiano Aldo Moro la formazione del primo governo di centrosinistra del dopoguerra. Nel 1966 ci fu una commissione ministeriale sulla vicenda e Cossiga si occupò di censurare alcune parti del rapporto finale, per tutelare il segreto militare.
D’altronde Cossiga si è sempre detto un appassionato – e a suo dire esperto – di servizi segreti e di spionaggio. In un’intervista data a Piergiorgio Odifreddi poco prima di morire motivò così il suo interesse:
Io mi sono sempre occupato di queste cose, ne ho sempre avuto la curiosità. E poi me l’ha chiesto il mio partito, Moro in particolare. La Democrazia Cristiana, per motivi storico-ideologici, non ha mai avuto un grosso interesse per gli arcana imperia: per il potere sì, ma per l’informazione no, a causa della cultura cattolica, verso la quale io ho un’atteggiamento di opposizione dialettica. In Italia non esiste un ambiente non militare che si occupi di questioni strategiche.
Il ministero dell’Interno e gli anni della lotta armata
Nel 1976 fu nominato ministro dell’Interno a 48 anni, un ruolo delicato nel periodo probabilmente più complesso e precario della storia repubblicana. Cossiga badò alla sicurezza e all’ordine pubblico del paese durante dure contestazioni studentesche, durante gli anni più violenti della lotta armata dei gruppi extraparlamentari e durante i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, conclusi con l’assassinio di Moro stesso; il piglio violento e repressivo con cui interpretò il ruolo di ministro rese Cossiga odiatissimo, soprattutto negli ambienti della sinistra extraparlamentare. Divenne l’obiettivo preferito delle contestazioni e per le strade era facile imbattersi in scritte sui muri che lo insultavano apertamente.
Nonostante fosse tutto sommato incline ad ammettere i propri errori, come fece su alcuni aspetti della gestione del caso Moro, Cossiga non ritrattò mai il suo approccio alla tutela dell’ordine pubblico, casomai lo rivendicò negli anni successivi. Nel 2008, per esempio, fece molto scalpore un’intervista in cui Cossiga consigliava al ministro dell’Interno di allora, Roberto Maroni, di utilizzare contro le proteste del movimento studentesco “Onda” la stessa tattica adottata da lui negli anni Settanta: «Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città», dopodiché, una volta che nell’opinione pubblica è cresciuta la paura per i manifestanti, far intervenire la polizia per «mandarli tutti in ospedale».
Le infiltrazioni di agenti in borghese c’erano anche nel 1977, quando gli studenti e i militanti protestavano in quella che è stata definita la parte finale dell’onda lunga di contestazioni partita nel 1968. Soprattutto, c’erano agenti in borghese il 12 maggio di quell’anno, quando Giorgiana Masi – una studentessa di 18 anni – morì durante una manifestazione a Roma, uccisa da un proiettile sparato alle sue spalle, proveniente dalla zona dove erano schierate le forze di polizia.
Masi era iscritta al Partito Radicale, che si spese molto per cercare di chiarire le dinamiche dell’uccisione, raccogliendo filmati e testimonianze della manifestazione per accertare le violenze degli agenti contro i manifestanti, e costringendo Cossiga ad ammettere la presenza di squadre speciali e di agenti in borghese. Il mistero dell’uccisione di Masi non è mai stato risolto: i Radicali e gran parte dell’opinione pubblica hanno sempre rifiutato la versione ufficiale, sostenuta da Cossiga, secondo cui Masi sia morta per un proiettile vagante sparato dai manifestanti.
«Io ho ucciso Aldo Moro»
In seguito all’uccisione dell’allora presidente della DC Aldo Moro, avvenuta il 9 maggio 1978, Cossiga tornò più volte sull’argomento, soprattutto negli ultimi anni, dando interviste e raccontando la sua versione su quanto fecero lui e gli altri membri del governo. Disse più volte di sentirsi addosso la responsabilità della morte di Moro, e che la vitiligine e i capelli bianchi gli erano stati causati dal trauma di quei giorni convulsi. Nel 2003 raccontò alla Stampa: «Per giorni, per mesi, dopo via Caetani e le mie dimissioni, mi sono svegliato di soprassalto, dicendo: “Io ho ucciso Aldo Moro”. E ne ero consapevole, sin dall’inizio».
Cossiga ebbe anche in questa vicenda un ruolo cruciale. Dopo il rapimento chiese agli Stati Uniti l’aiuto di un consulente per affrontare l’emergenza e arrivò Steve Pieczenick, un esperto di terrorismo alle dipendenze dell’amministrazione Carter. Insieme a lui Cossiga istituì una specie di commissione per screditare Moro e diffondere l’idea che non fosse pienamente in sé dal punto di vista psicologico, cosa che avrebbe dovuto indebolire la posizione dei sequestratori, le Brigate Rosse.
Il ruolo di Pieczenick non è mai stato chiarito del tutto. Diversi anni dopo, a partire dal 1994, cominciò a raccontare che Cossiga e gli altri membri del governo non avevano alcun interesse a salvare la vita di Moro, che era già stato deciso che Moro sarebbe morto in nome della “linea della fermezza”, cioè del rifiuto da parte delle istituzioni di aprire qualsiasi trattativa con le BR. Cossiga si risentì molto della versione di Pieczenick e disse che era solo un modo per fare pubblicità alla sua attività di autore di romanzi di spionaggio.
La bontà della decisione di non trattare con i brigatisti fu rivendicata da Cossiga. Nel 2008, in un’intervista data al Corriere della Sera, disse:
Quando, con il PCI di Berlinguer, ho optato per la linea della fermezza, ero certo e consapevole che, salvo un miracolo, avevamo condannato Moro a morte. Altri si sono scoperti trattativisti in seguito; […] Il punto è che, a differenza di molti cattolici sociali, convinti che lo Stato sia una sovrastruttura della società civile, io ero e resto convinto che lo Stato sia un valore. Per Moro non era così: la dignità dello Stato, come ha scritto, non valeva l’interesse del suo nipotino Luca.
In realtà, Cossiga ha anche raccontato che poco prima che i brigatisti uccidessero Moro la situazione era sul punto di sbloccarsi: si sarebbe dovuta aprire una trattativa ufficiale, parallelamente a quella segreta aperta dai socialisti, e lui sarebbe stato pronto a dimettersi da ministro dell’Interno; tuttavia, sempre secondo Cossiga, le BR non capirono che il loro obiettivo era vicino e uccisero Moro. Cossiga si dimise comunque dopo il 9 maggio e si ritirò in Sardegna per un anno, durante il quale si rifiutò di avere incarichi politici. Tornò solo nel 1979, chiamato dall’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini per formare un nuovo governo, il primo dei due di cui fu a capo nel corso della sua esperienza politica.
Non sempre le dichiarazioni di Cossiga sui fatti del passato sono state coerenti e supportate da prove, come dimostra la sua teoria sulla strage di Bologna che secondo lui fu un incidente causato da una non meglio specificata «resistenza palestinese». Nel caso del sequestro Moro, però, Cossiga fu uno dei pochi a escludere che le BR fossero mosse da poteri sovranazionali, teoria screditata dalle fonti più attendibili.
– Leggi anche: Bologna, 2 agosto 1980
Cossiga presidente della Repubblica
I sette anni in cui Cossiga fu presidente della Repubblica sono la rappresentazione migliore della singolarità del personaggio. Il suo mandato fu atipico fin dall’inizio: per la prima volta nella storia della Repubblica l’elezione avvenne subito, al primo scrutinio, con una larghissima maggioranza. Soltanto nel 1946 era avvenuto un fatto simile, quando Enrico De Nicola venne eletto alla prima votazione capo provvisorio dello Stato, ma erano tempi molto diversi e non era ancora stata scritta la Costituzione.
Cossiga si assicurò i voti dei comunisti grazie alle manovre dell’allora segretario della DC, Ciriaco De Mita, che si accordò in segreto con Alessandro Natta, segretario del PCI. In realtà la scelta iniziale dei democristiani era Giulio Andreotti, sul cui nome i due partiti non riuscirono ad accordarsi a causa del veto dei comunisti. La seconda scelta era l’allora vicepresidente del Consiglio Arnaldo Forlani, che però non voleva saperne. Cossiga era dunque l’ultima possibilità per De Mita di avere uno dei suoi al Quirinale, e si rivelò una scelta vincente quando venne eletto il 25 giugno 1985 con 752 voti su 977. Non aveva ancora compiuto 57 anni.
L’aspetto più raccontato del settennato di Cossiga sono però le due fasi distinte che ebbe: la prima durò cinque anni e fu tranquilla e silenziosa, priva di scossoni; la seconda durò poco meno di due anni, durante i quali Cossiga fu irrequieto, ciarliero, facile a battute contro il governo e contro il suo stesso partito che portarono i giornali a definirlo il “presidente picconatore”, prendendo spunto da una definizione dello stesso Cossiga il quale chiamava le sue esternazioni «picconature».
Questo improvviso cambiamento è stato interpretato da storici e commentatori in modo abbastanza unanime, data la facilità con cui si può individuare la cesura tra le due fasi: Cossiga iniziò a “picconare” il sistema politico dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, un evento di cui intuì la portata epocale e le relative ripercussioni non solo sulla politica internazionale ma anche su quella italiana. L’equilibrio del sistema politico italiano si era basato fino a quel momento sull’esclusione dei comunisti dal governo, requisito fondamentale durante la Guerra fredda per appartenere al blocco occidentale e all’alleanza militare della NATO. Caduto il muro di Berlino, Cossiga avrebbe previsto prima degli altri la crisi dei partiti che sarebbero crollati di lì a tre anni con Tangentopoli.
Lo storico Giuseppe Mammarella e il quirinalista del Messaggero Paolo Cacace, nel loro libro sui presidenti della Repubblica, scrivono:
Nel pensiero di Cossiga il crollo del muro, con la fine dei regimi dell’Est europeo, avrebbe dovuto condurre rapidamente alla fine della cosiddetta «guerra fredda interna», cioè all’abolizione della conventio ad excludendum verso i comunisti, quel «fattore K» che aveva condizionato tutta la politica italiana del secondo dopoguerra costringendo gli italiani «ad un’alternanza di governo senza alternative di governo», ma anche alla fine del consociativismo […] e della convinzione che, nel nome della logica di Yalta, fosse consentita qualsiasi pratica immorale a livello politico.
Non tutti concordano con questa interpretazione. Secondo De Mita – che era uno degli oggetti più frequenti delle stoccate di Cossiga – intorno all’ultima fase del settennato nacque un mito non corrispondente alla realtà. Due giorni dopo la morte di Cossiga, disse alla Stampa che negli ultimi anni era stato un presidente «incommentabile» e che i cambiamenti epocali in corso erano noti a tutta la classe politica: «Tutti noi, nell’89, sapevamo che le cose sarebbero cambiate». Tuttavia, Cossiga non era evidentemente d’accordo. Tra il 1991 e il 1992 le sue esternazioni e le richieste di riformare le istituzioni cominciarono a farsi sempre più frequenti. Sui giornali si facevano ipotesi – mai confermate – su una sua instabilità mentale e Indro Montanelli scrisse che soffriva di «ciclotimìa», un disturbo dell’umore simile al bipolarismo.
In realtà le sue dichiarazioni, seppur improvvise, erano ben calcolate e venivano date dal portavoce alle agenzie di stampa sempre verso sera, con il preciso scopo di mandare in scompiglio le redazioni prima che i giornali andassero in stampa. Per adeguarsi, i giornali si inventarono la figura del quirinalista – esistente ancora oggi – che doveva seguire le continue notizie provenienti dal Quirinale.
Cossiga se la prese con tutti, con De Mita, con il segretario socialista Bettino Craxi (colpevole a suo dire di voler «raddrizzare l’Italia» con il qualunquismo), con i magistrati del CSM e anche con Andreotti, che era a capo del governo. Si inventò soprannomi irrisori, definì Achille Occhetto «lo zombie con i baffi» e De Mita il «Lepido di Nusco». Ma al di là delle escandescenze, il tentativo di Cossiga di spingere il sistema politico verso un cambiamento era concreto: a giugno del 1991 mandò un lungo messaggio al Parlamento in cui si indicavano alcune vie per riformare la Costituzione, tra cui l’elezione di un’assemblea costituente. Il messaggio di Cossiga fu sostanzialmente ignorato dalla maggioranza parlamentare e dal governo.
A contribuire alla fine anticipata del mandato di Cossiga fu la decisione di Andreotti, presa a ottobre del 1990, di rivelare l’esistenza dell’operazione Gladio, la struttura difensiva segreta della NATO in Italia nata per contenere il comunismo. Cossiga aveva fatto parte di quell’operazione e non prese bene la decisione di Andreotti di rivelarne l’esistenza, giudicandola troppo avventata, ma decise comunque di autodenunciarsi e rivendicare il suo ruolo, causando l’indignazione dei comunisti che ne chiesero la messa in stato d’accusa per attentato alla Costituzione.
Era il dicembre del 1991. Poco dopo Cossiga rivolse alla nazione il più breve discorso di fine anno della storia della Repubblica: durò solo tre minuti e mezzo, che Cossiga impiegò a spiegare perché non aveva voglia di dire niente.
Nell’aprile seguente Cossiga sciolse le camere, chiese di essere ascoltato dal Tribunale dei ministri per scagionarsi e il 25 aprile annunciò clamorosamente le dimissioni. Le accuse però a quel punto vennero ritirate e il Tribunale dei ministri archiviò l’indagine nel 1994.
Nel 2009 a Cossiga capitò di commentare il periodo delle continue stoccate al sistema politico. Disse: «Se potessi tornare indietro, me ne starei zitto e buono. Se allora mi fossi comportato così, probabilmente mi avrebbero rieletto, e c’era una quota di mondo politico che lo voleva. Ma ero incazzato come una belva e non potevo tacere».