Perché Milano continua ad allagarsi
Le esondazioni del Seveso sono un problema noto da molti anni, ma è nota anche la soluzione: solo che incontra resistenze trasversali e ostacoli di ogni tipo
Almeno un paio di volte all’anno, diversi quartieri a nord di Milano vengono inondati dall’acqua piovana, che allagando le case e le strade provoca danni e disagi quantificabili in svariati milioni di euro.
Le inondazioni sono provocate dalle acque del fiume Seveso, uno dei diversi fiumi che scorre sottoterra nel territorio di Milano, che in caso di forti piogge non riesce a trattenere l’acqua in eccesso e riemerge dai tombini nei quartieri di Niguarda, Isola, Maggiolina e Bicocca. È un problema noto ai milanesi dal Secondo dopoguerra. L’ultima esondazione è avvenuta a fine luglio, e per l’ennesima volta i giornali hanno pubblicato foto e resoconti delle strade allagate, mentre l’amministrazione comunale del sindaco Beppe Sala ha cercato di spiegare come sta gestendo il problema.
Non è uno di quei casi in cui non si trova la soluzione: la soluzione è stata trovata ormai diversi anni fa ed è condivisa dal governo nazionale, da quello regionale e dall’amministrazione della città. Eppure al prossimo forte temporale – peraltro sempre più frequenti per via del cambiamento climatico – il Seveso allagherà di nuovo le strade della città a causa di una serie di problemi politici, tecnici e burocratici che difficilmente verranno risolti a breve, e che ne hanno impedito fin qui la realizzazione.
Il Seveso, che nasce da un piccolo monte al confine fra Italia e Svizzera, ha sempre avuto un ruolo piuttosto importante nella vita di Milano. In epoca romana garantiva la maggior parte dell’acqua del fossato della città, oltre a essere utilizzato per disfarsi dei rifiuti cittadini. Diversi altri fiumi che scorrevano in città – oltre alla costruzione dei Navigli – resero Milano una città prevalentemente fluviale per buona parte della sua storia.
I primi problemi emersero già alla fine del Quattrocento, quando fu realizzato un canale di sfogo, chiamato Redefossi, per deviare l’acqua in eccesso durante le piene del Seveso e del nuovo Naviglio della Martesana. Nei secoli successivi il Seveso perse importanza e la sua parte finale fu progressivamente incanalata in un condotto sotterraneo. In gergo si dice che è stato tombinato.
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Per una quarantina di chilometri il Seveso scorre all’aperto fra le province di Como e Monza e Brianza. Viene poi tombinato al confine fra il comune di Bresso e quello di Milano, nel nord della città, non lontano dall’ospedale Niguarda. Infine, sfocia nel Naviglio della Martesana all’altezza di viale Melchiorre Gioia, nei pressi della Stazione Centrale. È questo il tratto più delicato e responsabile delle frequenti inondazioni.
Il tratto tombinato del Seveso viene usato anche come rete fognaria. Quando piove, l’acqua in eccesso che proviene dal tratto scoperto riempie l’intero condotto – fatto di cemento, quindi un materiale assolutamente non poroso – e riemerge nell’unico punto che collega la rete fognaria con l’esterno: cioè i tombini presenti nelle strade e nelle cantine della città. A quel punto il suolo non è in grado di assorbirla, a causa dell’intensa urbanizzazione dell’area, e l’acqua forma delle pozze in superficie. Nonostante i milanesi siano abituati a definirla un’esondazione, Mattia De Amicis, che insegna Geologia Ambientale all’università Bicocca, ha spiegato a Bnews che più precisamente il Seveso «non esonda ma rigurgita».
Secondo dati raccolti qualche anno fa dal governo e pubblicati dal Foglio, il problema del Seveso è diventato sempre più pressante: dopo avere inondato le strade di Milano nel 1917, nel 1934, nel 1944 e due volte nel 1951, dal 2000 al 2012 sono state registrate in media 2,5 piene all’anno, con picchi di otto inondazioni (nel 2010, quando fu parzialmente danneggiato anche il tracciato della metropolitana).
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Dopo molti anni di discussione su come risolvere il problema, nel 2014 l’Aipo – Agenzia Interregionale per il fiume Po – progettò un piano per creare una serie di vasche nel tratto scoperto del Seveso, che in caso di forti piogge possano ospitare l’acqua in eccesso ed evitare che si accumuli nel condotto sotterraneo che scorre sotto Milano. Il progetto fu condiviso dal Comune e dalla Regione e nel 2015 fu finanziato dal governo Renzi nell’ambito del programma ItaliaSicura: in totale parliamo di 142 milioni di euro, di cui 112 messi dal governo, 10 dalla regione – guidata allora come oggi dal centrodestra – e 20 dal Comune di Milano, guidato dal centrosinistra e in assoluto l’ente più interessato alla realizzazione dell’opera.
Il progetto prevede l’ampliamento di alcune piccole golene – cioè aree situate fra il letto del fiume e il suo argine – ma soprattutto la costruzione di quattro vasche nel tratto scoperto del fiume a Lentate (provincia di Monza e Brianza), Senago (Milano), Paderno Dugnano (Milano) e al confine fra Bresso e Milano. Le vasche dovevano essere pronte in tempi piuttosto rapidi – tutto sommato si tratta di scavare delle buche nel terreno – ma al momento nessuna delle quattro è stata ultimata. Alla base delle difficoltà c’è una tesi sintetizzata al Foglio dal consigliere regionale del Movimento 5 Stelle Massimo De Rosa, secondo cui costruire le vasche significherebbe «creare una fogna a cielo aperto».
Il Seveso è giudicato assai inquinato dalle analisi periodiche condotte dai tecnici della regione, e i comuni dove dovrebbero essere costruite le vasche temono che per evitare di allagare Milano si finisca per spostare il problema in provincia, costruendo delle pozze di acqua sporca e maleodorante. Il Giorno in particolare scrive che a lavori ultimati circa duemila abitanti di Bresso che vivono in un complesso di palazzi in via Papa Giovanni XXIII si ritroverebbero la vasca a un centinaio di metri dalle proprie finestre. Gli abitanti della zona criticano anche il fatto che la vasca sarà costruita in una zona dove oggi si trova un boschetto del Parco Nord, un’area protetta che si estende per diversi ettari al confine nord del Comune di Milano.
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Proprio a Bresso il 30 luglio si è tenuta una manifestazione dei vari comitati no-vasca attivi nel nord di Milano. Una settimana dopo hanno manifestato anche i comitati locali di Fridays For Future e di Extinction Rebellion, due importanti movimenti ambientalisti giovanili attivi in tutto il mondo.
Ma l’ostilità alla costruzione delle vasche è assai trasversale. Alla manifestazione di fine luglio erano presenti anche i sindaci di Bresso e Cormano, un altro comune della zona, entrambi eletti col centrodestra. Un paio di giorni prima il sindaco di Bresso, Simone Cairo, si era presentato davanti alla sede del Comune di Milano per protestare contro la costruzione delle vasche. Insieme a lui c’erano due importanti figure della Lega milanese: la parlamentare europea Silvia Sardone e il consigliere comunale e regionale Massimiliano “Max” Bastoni, considerato il ponte fra la Lega e i gruppi neofascisti attivi in città.
Gli amministratori dei comuni interessati non si limitano a protestare. Il predecessore di Cairo, eletto col Partito Democratico, aveva presentato una serie di ricorsi contro la vasca che sono stati rigettati definitivamente soltanto un mese fa, e che secondo l’assessore all’Urbanistica del Comune di Milano Pierfrancesco Maran hanno di fatto bloccato i lavori per tre anni. A Senago i lavori sono iniziati soltanto nel 2019 dopo una lunga disputa legale persa dal Comune. Ci vorranno ancora diversi anni per completare l’intero progetto, dato che i lavori per le vasche di Lentate e Paderno Dugnano non sono ancora stati appaltati dalla Regione, nonostante un anno e mezzo fa l’assessore regionale alla Protezione civile Pietro Foroni avesse pronosticato che il 2019 sarebbe stato «l’anno della grande accelerazione» nel progetto.
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Nonostante l’amministrazione comunale e quella regionale insistano molto sulla necessità di costruire le vasche – «senza le vasche a Nord di Milano la situazione non si risolverà», ha ribadito di recente il sindaco di Milano, Beppe Sala – negli anni sono state criticate anche da alcuni esperti. Luciano Masciocco, che insegna Geologia ambientale all’Università di Torino, qualche tempo fa aveva definito le vasche come quelle progettate da Aipo «mostri dal punto di vista paesaggistico e per il grande impatto ambientale provocato al territorio», e suggerito che al posto di realizzare poche grandi vasche «ogni comune si dovrebbe attrezzare per trattenere l’acqua in eccesso sul proprio territorio» (una soluzione probabilmente impraticabile, data la mole dei ricorsi che innescherebbe). Altri ancora incoraggiano il Comune a rendere più efficienti le operazioni di pulizia del tratto tombinato del Seveso.
Il Comune di Milano ha risposto più volte alle critiche spiegando che le vasche rimangono la soluzione migliore fra quelle possibili, e che sarebbero riempite di acqua potenzialmente inquinata soltanto in corrispondenza delle piene, quindi per pochissimi giorni all’anno: «Per gli altri giorni sarebbe un laghetto con acqua di falda», ha detto al Foglio l’attuale assessore ai Trasporti di Milano, Marco Granelli. Il Comune ha anche promesso di compensare la perdita del boschetto dove sarà costruita la vasca di Bresso.
L’area che acquisirà il Parco Nord in compensazione sarà circa tre volte più grande dell’area in cui verrà realizzata la vasca. Anche gli spazi intorno alla vasca, inoltre, dovrebbero rimanere aperti al pubblico: «per la quasi totalità dell’anno la vasca sarà un luogo ricreativo, con percorsi ciclabili e pedonali a diverse altezze, spazi attrezzati per la sosta e aree verdi», ha fatto sapere il Comune in un comunicato stampa.
Lunedì 3 agosto, a poche settimane di distanza dal respingimento dei ricorsi per impedire la costruzione della vasca di Bresso, è iniziato il disboscamento dell’area che ospiterà la vasca, che secondo l’attuale tabella di marcia sarà finita entro l’estate del 2022. Mentre le ruspe del cantiere entravano in azione, Cairo ha pubblicato su Facebook un video dell’area, accusando Sala e la sua amministrazione di voler distruggere «quattro ettari di bosco della Città di Milano».