Un concorso a premi finito malissimo
Pepsi nel 1992 promise ricchi premi a chi nelle Filippine avesse trovato un certo numero sotto il tappo: per errore vinsero centinaia di migliaia di persone, e ne nacquero proteste e rivolte violente
Alle 18 del 25 maggio 1992 un buon numero di filippini stava guardando in tv il quotidiano segmento in cui venivano annunciati i vincitori di un concorso indetto dalla Pepsi. Il concorso era iniziato a febbraio ed era molto semplice: ogni tappo di bottiglia Pepsi mostrava al suo interno un numero, e ogni giorno certi numeri permettevano di aggiudicarsi premi in denaro. I premi più alti erano pari a un milione di pesos filippini – più o meno 5o milioni di lire di allora – e fino a quel giorno lo avevano vinto in 18.
Quel 25 maggio il numero che permetteva di vincere il milione di pesos era il 349. Secondo i piani di Pepsi, solo due tappi avrebbero dovuto avere quel numero, così da portare a 20 il numero di vincitori del premio milionario. I tappi con il 349 erano invece diverse centinaia di migliaia.
Quella sera, quindi, diverse centinaia di migliaia di persone pensarono di essere diventate milionarie e di aver vinto una somma che, per le Filippine di allora, era notevole: pari a diversi decenni di stipendio medio. La dirigenza filippina di Pepsi spiegò che c’era stato un errore e che non poteva pagare tutti, ma ormai il danno era fatto: all’annuncio di quel 25 maggio seguirono mesi di proteste di massa, minacce ai dirigenti Pepsi, almeno cinque morti e tantissime cause legali. Alla fine praticamente nessuno dei possessori dei tappi con il 349 ottenne il suo milione di pesos, e Pepsi ne uscì con un grande danno economico e un ancora più grande danno d’immagine.
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L’idea di un concorso a premi con i numeri nei tappi delle bottiglie era già stata usata da Pepsi altrove, e con successo. Era venuta a un dirigente di New York ed era piaciuta a Christopher Sinclair, il poco più che quarantenne amministratore delegato di Pepsi International. Come ha scritto Bloomberg, Sinclair si era fatto notare da subito come un capo agguerrito, che nei suoi primi sei mesi al comando della multinazionale aveva visitato più di 70 paesi e che voleva sfidare il dominio mondiale di Coca-Cola. Sinclair vide in quel concorso un’interessante opzione per provare a far crescere tanto e in fretta le vendite delle bibite Pepsi (la Pepsi, ma anche 7-Up, Mirinda Mountain Dew) fuori dagli Stati Uniti.
Regole e dinamiche del concorso, noto come Number Fever, furono perfezionate insieme alla società messicana DG Consultores. Prima dei filippini anche argentini, cileni, messicani e guatemaltechi avevano prestato particolare attenzione ai numeri stampati nell’interno dei tappi delle loro Pepsi. Era quasi sempre filato tutto liscio, tranne quella volta in cui in Cile, uno dei primi paesi a ospitare il concorso, per colpa di un fax piuttosto confuso era stato annunciato un numero vincente che in realtà non lo era. Ma tutto era stato risolto piuttosto in fretta e senza troppi problemi.
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Dopo i buoni risultati in alcuni paesi del Centro e Sudamerica il concorso fu portato nelle Filippine, un paese i cui oltre 60 milioni di abitanti di allora (ora sono più di 106 milioni) sembravano gradire molto le bibite gassate. Nelle Filippine, tra l’altro, Pepsi e Coca-Cola si sfidavano da tempo: secondo Bloomberg «con modalità che non sarebbero mai state permesse negli Stati Uniti». Cioè, sempre secondo Bloomberg, con campagne pubblicitarie molto aggressive ma anche con «spionaggio e colpi bassi». A inizio 1992 Coca-Cola era messa molto bene – più dell’80 per cento delle bibite vendute nelle Filippine era suo – e Pepsi arrancava: non riusciva a competere con i prezzi e la fama di Coca-Cola, e ancora si stava riprendendo dallo scandalo dovuto ad alcuni suoi dirigenti che negli anni Ottanta avevano provato a mentire, gonfiando le vendite di Pepsi nel paese.
Anche grazie a notevoli investimenti pubblicitari, nelle Filippine il concorso andò benissimo, molto meglio che in ogni altro paese. Nei primi mesi del 1992, quando fu lanciato, le vendite di Pepsi nel paese erano cresciute del 40 per cento, permettendo alla società di portare la sua fetta di mercato fino a circa il 25 per cento del totale. Il concorso sarebbe dovuto finire l’8 maggio, ma andava così bene che fu prolungato di qualche settimana.
Il grande interesse per i tappi delle Pepsi aveva portato litigi, arresti e due omicidi di venditori di bibite, sempre dovuti a discussioni su chi fosse il legittimo proprietario di qualche tappo e quindi destinatario di qualche premio. E così come negli altri paesi, c’erano stati casi di tentata contraffazione dei numeri sui tappi. Ma dal punto di vista di Pepsi tutto filava liscio: qualcuno vinceva qualcosina, pochissimi vincevano il premio più grande e tantissimi compravano bottiglie di Pepsi, che in tutto contava di spendere, per tutti i premi durante tutta la durata del concorso, circa 2 milioni di dollari.
Poi arrivò il 25 maggio. Non è ben chiaro quanti fossero i tappi con il 349: secondo alcune fonti 600mila, secondo altre 800mila.
Non ci volle molto per capire l’origine dell’errore. Il concorso prevedeva che i numeri vincenti fossero generati in modo casuale a computer e che venissero conservati in una cassaforte a Manila, la capitale del paese. Da lì venivano comunicati di volta in volta agli stabilimenti, accompagnati da un codice a sette cifre che serviva a verificare l’autenticità del tappo. Per colpa di un errore del computer, probabilmente legato al fatto che la durata del concorso era stata prorogata oltre l’8 maggio, il 349 fu “estratto” come numero vincente dopo che agli stabilimenti era stato comunicato di stampare centinaia di migliaia di tappi con il 349. In effetti, come ha scritto Mental Floss, solo due dei tappi riportavano il giusto codice di verifica. Ma questo i possessori dei tappi non lo sapevano, e nessuna precedente comunicazione di Pepsi aveva spiegato che era necessario controllare anche quel numero.
"Number Fever: The Pepsi Contest That Became a Deadly Fiasco" https://t.co/1bJb9hSYrt (@jeffmaysh, @bw) pic.twitter.com/x1Ms1YetEX
— Longform (@longform) August 10, 2020
La sera del 25 maggio il distaccamento filippino di Pepsi ci mise molto poco a rendersi conto del guaio, anche perché in alcuni casi i proprietari dei tappi con il 349 si recarono direttamente ai cancelli delle fabbriche dell’azienda o fuori dalla sua sede. Alle 10 di sera di quel giorno Pepsi chiamò il Dipartimento filippino del commercio e dell’industria, che aveva approvato il concorso, comunicando che c’era stato un errore. Sui giornali del giorno successivo Pepsi scrisse che il vero numero vincente era il 134. Poco dopo comunicò anche che come «gesto di buona volontà» avrebbe comunque dato a chi aveva il 349 una sorta di risarcimento di 500 pesos filippini: meno di un millesimo di quello che i possessori dei tappi con quel numero credevano di aver vinto.
Anche nella migliore delle ipotesi – quella in cui molti tappi erano andati persi e non erano stati controllati – per Pepsi significava comunque rassegnarsi a dare 500 pesos a qualche centinaio di migliaio di persone, per una spesa totale che di certo sarebbe stata pari ad almeno una decina di milioni di dollari, molto più dei 2 milioni inizialmente previsti come montepremi complessivo dell’intero concorso. Ma comunque meno delle decine di miliardi di dollari che Pepsi avrebbe dovuto pagare moltiplicando il milione di pesos per tutti i possessori di un tappo col 349.
Centinaia di migliaia di persone accettarono i 500 pesos, ma moltissime scelsero altre strade. In molti casi furono proteste pacifiche, ma ci furono anche atti di violenza: decine di camion della Pepsi furono assaltati, ribaltati o bruciati e ci furono attacchi, anche con bottiglie incendiarie e bombe a mano, contro sedi della Pepsi, che per proteggersi ne circondò alcune con il filo spinato. Lavorare per la Pepsi nelle Filippine, in particolar modo da dirigente, divenne molto pericoloso: qualcuno lasciò il paese, qualcun altro assunse guardie del corpo. Il tutto mentre le vendite di Pepsi nel paese diminuivano drasticamente.
Dopo i morti dovuti ai litigi sulla proprietà dei tappi, ce ne furono altri legati ad attacchi contro luoghi o camion della Pepsi: tre dipendenti di Pepsi morirono nell’esplosione di una bomba a mano in uno stabilimento dell’azienda; un’insegnante e la figlia di 5 anni morirono nell’esplosione di una bomba lanciata verso un camion di Pepsi.
Una dirigente del marketing di Pepsi Filippine disse che «le minacce di morte erano quotidiane». La moglie di un uomo morto d’infarto in una delle marce di protesta contro Pepsi disse ai giornalisti che anche lei si sarebbe battuta fino alla morte e aggiunse: «E anche dopo la mia morte, il mio fantasma tornerà per lottare contro Pepsi».
Migliaia di persone fecero causa alla Pepsi e nacquero diversi gruppi di possessori di tappi con il 349. Alcuni erano pacifici gruppi di interesse o di pressione, creati per coordinare le azioni legali di più persone; altri erano più che altro dei modi per estorcere denaro ai membri in cambio di eventuali e per niente certi risarcimenti. Ci fu anche una sorta di mercato nero dei tappi con il 349: chi li vendeva voleva guadagnarci più dei 500 pesos offerti dalla Pepsi, chi li comprava sperava di poter far fruttare l’investimento in futuro, sperando in una qualche sentenza che obbligasse Pepsi a pagare.
Girarono anche voci, mai provate o confermate, sul fatto che dietro alle rivolte e ai gruppi contro Pepsi ci potessero essere aziende rivali (interessate a screditarne ancora di più l’immagine) o persino altre secondo cui dietro ai gesti più violenti potesse invece esserci proprio Pepsi (secondo una teoria in base alla quale lo fece per associare gli atti violenti alle richieste di rimborso di chi riteneva di aver vinto il concorso, e mettere così a tacere le richieste pacifiche).
Nelle Filippine, tra l’altro, i mesi del concorso di Pepsi avevano coinciso con una tesissima campagna elettorale e i mesi delle proteste contro Pepsi assunsero in certi casi significati politici. Entro certi limiti, essere contro Pepsi voleva dire essere contro l’ordine costituito e contro un governo – quello di Fidel Ramos, presidente dal 1992 al 1998 – accusato di essere particolarmente vicino agli Stati Uniti, che avevano controllato il paese dalla fine dell’Ottocento fino alla Seconda guerra mondiale.
Nessuna delle cause intentate da cittadini filippini portò all’obbligo di risarcimento pieno da parte di Pepsi. Nel gennaio 1993 l’azienda pagò una multa di 150mila pesos al Dipartimento filippino del commercio e dell’industria ma le proteste continuarono, diventando una sorta di questione di stato: nell’aprile 1993 Sinclair, il capo di Pepsi International che aveva scelto di puntare forte sul concorso dei tappi, andò a Manila per parlarne con il presidente filippino; nella primavera di quell’anno si parlò di possibili (ma mai avvenuti) arresti di alcuni dirigenti di Pepsi Filippine e nel novembre 1993 le proteste coincisero con la visita nel paese del presidente statunitense Bill Clinton. Nel 2006 una decisione della Corte suprema filippina chiuse definitivamente la questione, affermando che Pepsi non era tenuta a risarcire nessuno.
Già dalla metà degli anni Novanta le vendite di Pepsi nel paese ripresero piano piano a salire, tornando a valori paragonabili a quelli precedenti al concorso, in gran parte grazie alla vendita delle nuove bottiglie da un litro e mezzo. Pepsi continuò però per anni ad avere problemi di immagine nelle Filippine e ancora oggi parlare di “349” equivale a parlare di una gran fregatura. Invitata da Bloomberg a commentare e ricordare la vicenda, Pepsi ha risposto: «Sono cose successe trent’anni fa e nessuno dei dirigenti che se ne occupò lavora ancora per Pepsi». Ha comunicato che il coronavirus ha reso impossibile accedere ai documenti sulla vicenda e ha aggiunto: «Ci dispiace molto per il dolore e le sofferenze che il nostro errore causò alle persone nelle Filippine».
Come ha ricordato Mental Floss, nel 1996 Pepsi ebbe anche altri problemi, quella volta con conseguenze molto meno gravi. In una pubblicità statunitense per una sua raccolta punti lasciò intendere, dal suo punto di vista in modo scherzoso, che con 7 milioni di punti si poteva riceve un aereo da combattimento AV-8 Harrier II.
Uno studente di economia di 21 anni comprò allora quei punti per dieci centesimi l’uno (l’offerta prevedeva quella possibilità) spendendo 700mila dollari. Fece quindi richiesta per l’aereo, il cui costo era di oltre 30 milioni di dollari. Una sentenza diede ragione a Pepsi, che sosteneva fosse chiaro che si trattasse di uno scherzo, ma da lì in poi Pepsi decise comunque di alzare a 700 milioni il numero di punti necessari per l’aereo.