Che cos’è un museo?
Se lo chiede da quattro anni il Consiglio Internazionale dei Musei, ed è stato fin qui molto difficile trovare una definizione che piaccia a tutti
Negli ultimi quattro anni un dibattito ha impegnato e agitato moltissimi esperti di museologia e dirigenti dei musei di tutto il mondo, riuniti nell’ICOM (Consiglio Internazionale dei Musei). Il dibattito riguarda quale debba essere una definizione contemporanea di “museo”. Dallo scorso settembre il dibattito ha ottenuto visibilità anche fuori dal settore e dagli addetti ai lavori, e negli ultimi mesi ha portato alle dimissioni di numerosi membri dell’ICOM.
La questione cominciò nel 2016, quando l’ICOM creò una commissione con il compito di riscrivere la definizione ufficiale di “museo”, che era rimasta quasi la stessa dagli anni Settanta e nel frattempo modificata solo in piccoli dettagli, l’ultima volta nel 2007. La proposta di modificare la definizione era arrivata dai dirigenti di alcuni musei e dai rappresentanti di alcuni paesi, desiderosi di trovare una formulazione più attuale. Non era semplicemente una questione di parole: dalla definizione ufficiale di museo dipendono le decisioni su cosa possa essere considerato “museo” e cosa no, con tutto quello che ne consegue in termini di descrizioni ufficiali, status legali, accesso a bandi e fondi, oltre che quello che debba fare un “museo” per essere giudicato tale.
La definizione attuale di “museo” è questa:
Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto.
La commissione lavorò al progetto di una nuova definizione dal 2016 al 2019, invitando tutti gli interessati a proporre una definizione e ottenendo 269 suggerimenti da molti paesi diversi. A luglio del 2019 l’ICOM propose una definizione molto più lunga e politica di quella precedente.
I musei sono spazi democratizzanti, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sul passato e sul futuro. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, conservano reperti ed esemplari in custodia per la società, salvaguardano ricordi diversi per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone. I musei non sono a scopo di lucro.
Sono partecipativi e trasparenti e lavorano in partnership attiva con e per le diverse comunità al fine di raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esporre e migliorare la comprensione del mondo, con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario.
La nuova definizione avrebbe dovuto essere votata in occasione di un’assemblea dell’ICOM a settembre, ma la questione nel frattempo era diventata così controversa che il 70 per cento dei membri dell’assemblea aveva chiesto di posticipare il voto. E come capita spesso nei casi in cui si discute a lungo sulle parole, il dibattito lessicale rivela una questione ideologica.
Secondo Rick West, presidente di un celebre museo di Los Angeles, in questo caso si oppongono da un lato l’idea che il museo debba essere un luogo di conservazione di collezioni a scopo culturale e didattico e anche un’affascinante meta turistica, dall’altro quella che chiede ai musei di essere attori impegnati in un più ampio contesto sociale e politico, e in una direzione precisa che vada molto oltre la semplice conservazione di oggetti, opere e manufatti: per esempio la “giustizia sociale”, “l’uguaglianza mondiale”, il “benessere planetario”.
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François Mairesse, figura di spicco della museologia soprattutto in Francia, si è dimesso dalla commissione a giugno del 2019. Ha spiegato al giornale The Art Newspaper che più che una definizione, cioè una «frase semplice e concisa che caratterizza un oggetto», quella proposta dalla commissione è un manifesto politico, «un’affermazione di valori oggi alla moda», ed è anche «decisamente troppo complicata».
Jette Sandahl, curatrice di musei danese e presidente della commissione che ha promosso la definizione, sostiene che dalle consultazioni sia emersa la «volontà di diversi paesi di impegnarsi nelle questioni urgenti e globali di oggi», come la crisi ambientale e il razzismo. Sandahl ha detto al New York Times che «dobbiamo affrontare questi problemi se vogliamo restare rilevanti».
Da un punto di vista pratico, Sandahl sostiene che molti governi e finanziatori privati si siano detti più propensi a sostenere economicamente i musei con la nuova definizione, perché avrebbe reso esplicita la loro utilità sociale. George Abungu, ex capo del museo nazionale del Kenya, si è detto favorevole alla nuova definizione e ha detto che questa «non piace agli Occidentali che vogliono continuare a vivere nel passato, nel Diciannovesimo secolo».
Klaus Staubermann, capo della sezione tedesca dell’ICOM, si è detto invece preoccupato che questi eventuali fondi sarebbero più difficili da ottenere, perché i musei dovrebbero dimostrare di rientrare nei criteri della nuova definizione, più specifica e quindi più esigente rispetto alla precedente. In una conferenza a Parigi a inizio marzo un rappresentante turco ha sottolineato per esempio le difficoltà che i musei dei paesi con governi autoritari avrebbero se dovessero rispettare i criteri della nuova definizione: un museo impegnato politicamente, che lavori per la “giustizia sociale”, “polifonico” e aperto a “tutti i popoli”, in questi paesi sarebbe sicuramente chiuso in poco tempo. Allo stesso tempo, un museo che non facesse queste cose non potrebbe definirsi “museo”.
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Sandahl ha detto che queste critiche sono state espresse in modo poco costruttivo, e che secondo lei avrebbero potuto essere proposte sotto forma di modifiche alla definizione durante i lavori della commissione che guidava. A giugno di quest’anno ha dato le dimissioni dall’incarico, e poco dopo hanno fatto lo stesso altri membri della commissione e dell’ICOM, compresi il presidente Suay Aksoy, che è stato sostituito dall’italiano Alberto Garlandini, Rick West e George Abungu.
Alberto Garlandini ha spiegato al New York Times che in ogni organizzazione internazionale ci sono delle divergenze, e che ha fiducia nel fatto che nei prossimi anni si riuscirà a trovare una definizione comune che soddisferà tutti i membri dell’ICOM.