Il Libano era già messo molto male
Stava attraversando una crisi gravissima, con i cittadini ridotti al baratto e lunghi blackout quotidiani: ora ha mezza capitale danneggiata e centinaia di migliaia di persone senza casa
L’enorme esplosione avvenuta martedì al porto di Beirut, forse causata da un incendio all’interno di un deposito di nitrato di ammonio, ha provocato danni incalcolabili alla città e all’economia del Libano: ha distrutto non solo un pezzo del principale porto del paese, da cui entrava la stragrande maggioranza dei beni importati, ma anche alcune infrastrutture fondamentali, come l’enorme silo che conteneva buona parte delle riserve nazionali di grano.
Diversi analisti, tra cui Tobias Schneider, che lavora per il centro studi berlinese Global Public Policy Institute, si stanno chiedendo in queste ore come farà il Libano a rialzarsi, con meno di un mese di riserve di grano in suo possesso, con 250-300 mila persone senza più una casa, con più di metà della capitale danneggiata, e con un flusso di beni da riorganizzare completamente.
Tutto questo richiederebbe uno sforzo enorme anche a governi molto più attrezzati e in salute, e in tempi normali, mentre dovrà essere fatto nel mezzo della peggior crisi dalla fine della guerra civile libanese, nel 1990, che ha toccato il suo picco durante la pandemia da coronavirus ma che è frutto di anni di instabilità e settarismo nella politica nazionale, e del collasso del sistema bancario.
Della gravità della crisi libanese si parla ormai da diversi mesi, soprattutto in relazione alle violente proteste antigovernative iniziate nell’autunno 2019, sospese durante la pandemia da coronavirus e riprese a giugno. Le proteste sono state il sintomo di una situazione diventata ormai insostenibile per molti libanesi, per motivi innanzitutto legati al generale peggioramento dello stile di vita.
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Per moltissimi anni, ha scritto Ben Hubbard sul New York Times, i libanesi si sono distinti in Medio Oriente per non lasciare che le crisi politiche o le violenze impedissero di godersi «le cose belle della vita»: «I locali e gli hotel sono sempre rimasti aperti durante le guerre, e nonostante l’acqua del rubinetto sia imbevibile, la classe media ha continuato a comprare bei vestiti, assumere personale domestico sottopagato dell’Etiopia o delle Filippine e fare occasionali vacanze all’estero». Questo sistema si è retto per molto tempo sulla scelta del governo di tenere la lira libanese legata al dollaro americano, anche attraverso un meccanismo che molti critici hanno paragonato a uno “schema Ponzi”: una specie di truffa di stato.
Considerato che il Libano praticamente non produce beni di esportazione, la fonte primaria di dollari sono sempre stati i grandi depositi di ricchi investitori nella banca centrale. Per garantirsi il flusso dei depositi, la banca centrale offriva ogni volta tassi di interesse più alti, che però non potevano essere realmente pagati, perché non esisteva nessun reale investimento redditizio. La banca centrale cercava quindi nuovi investitori a cui promettere tassi di interesse ancora più grandi, usando i loro soldi per pagare gli interessi dei primi. E così via.
A un certo punto, però, gli investitori hanno cominciato a sospettare che la politica della banca centrale fosse insostenibile, e hanno smesso di investire. La quantità di dollari reali depositata è risultata molto inferiore rispetto a quella che avrebbe dovuto esserci e i risultati sono stati due: le banche hanno iniziato a limitare o hanno bloccato del tutto il prelievo dei dollari da parte dei cittadini, e allo stesso tempo la lira libanese ha cominciato a perdere inesorabilmente il suo valore: la distanza tra il valore ufficiale della moneta e quello al mercato nero è diventata sempre più grande.
La crisi è peggiorata durante la pandemia da coronavirus. A marzo il primo ministro libanese, Hassan Diab, ha annunciato che il Libano non sarebbe riuscito a pagare una rata da 1,2 miliardi di dollari di interessi sul suo enorme debito pubblico, e che avrebbe cercato nuovi accordi con i creditori. In quel momento il debito pubblico era pari a circa 77 miliardi di euro (corrispondeva al 150 per cento del prodotto interno lordo), c’era un deficit al 9 per cento del PIL e i flussi delle entrate necessarie per finanziare la spesa pubblica si erano notevolmente ridotti. In mancanza di valuta estera per ripagare i debitori stranieri, il governo doveva decidere se continuare a usare le sue riserve per pagare il debito o conservarle per le importazioni. Aveva deciso per la seconda opzione.
«Il mio stipendio non ha più alcun valore», ha raccontato Mirna Haddad, 54enne libanese, al New York Times in un articolo dello scorso maggio, mentre faceva la coda fuori da un bancomat di Beirut. Haddad ha detto che prima poteva convertire il proprio stipendio, piuttosto modesto, in dollari americani, riuscendo anche a comprare un’auto e a fare vacanze con la famiglia in Grecia, mentre ora non può più farlo, e la sua banca non le permette di trasferire i suoi risparmi all’estero, sul conto di suo figlio, studente universitario in Francia.
Nell’ultimo mese gli effetti della crisi sono diventati ancora più gravi, con una fetta sempre maggiore di popolazione con difficoltà ad arrivare alla fine del mese, o difficoltà a procurarsi da mangiare.
Su Facebook sono nati gruppi come Lebanon Barters, destinati al baratto, dove le persone scambiano oggetti di vario tipo con cibo e altri beni di prima necessità. In un post pubblicato sul gruppo, per esempio, Fatima al Hussein, madre di sei figli che vive nel nord del Libano, ha proposto di scambiare un vestito verde che aveva regalato a sua figlia con zucchero, latte e detersivo. Al Hussein ha raccontato al New York Times che suo marito guadagna 200mila lire libanesi a settimana, una quantità di denaro che prima corrispondeva a circa 130 dollari, oggi a 30. Antoine El Hajj, famoso cuoco libanese che da trent’anni ha un programma televisivo di cucina, ha raccontato di avere dovuto cambiare tutto quando si è resto conto che molte delle persone che lo seguivano non potevano più permettersi di comprare diversi ingredienti delle sue ricette, tra cui il manzo. «C’era una classe media in Libano, ma ora i ricchi sono ricchi, la classe media è diventata povera e i poveri sono diventati indigenti», ha detto El Hajj in un’intervista data a luglio.
Il peggioramento della crisi si è iniziato a vedere in molti aspetti della vita quotidiana dei libanesi, tra cui l’accesso all’elettricità.
Per molto tempo il governo ha faticato a fornire quantità sufficienti di elettricità, ma ora i blackout a Beirut sono diventati sempre più frequenti. Di recente, per esempio, l’ospedale universitario Rafiq Hariri, la principale struttura della capitale destinata a trattare i pazienti con la COVID-19, la malattia provocata dal coronavirus, è stata per due giorni, 20 ore al giorno, senza energia elettrica. Oggi manca elettricità per circa sei ore al giorno, e la direzione sanitaria dell’ospedale è stata costretta a chiudere alcune sale operatorie e rimandare parecchie operazioni chirurgiche.
La mancanza di elettricità si vede anche per le strade della capitale – dove i semafori hanno smesso di funzionare – che fino a qualche mese fa erano molto affollate e vissute anche di sera, mentre oggi sono semi-deserte.
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«Beirut è una città sopravvissuta. Le persone hanno sempre trovato un modo per mangiare, bere, fare musica ed essere attive. Ora però c’è un’aria molto pesante», ha detto Carmen Geha, docente universitaria di pubblica amministrazione all’Università americana di Beirut. «Ora anche le persone dell’alta borghesia non possono più permettersi di mangiare fuori casa. È come se prendessi il tuo stipendio e lo dividessi per nove».
La profondissima crisi che sta attraversando il Libano, sostengono diversi analisti, dipende in buona parte dall’incapacità della classe politica di governare con efficacia e attuare quelle riforme richieste dai creditori internazionali per ottenere nuovi prestiti e aiuti. Il problema sarebbe principalmente uno: il settarismo nella politica, che avrebbe portato ciascuna comunità a guardare e tutelare per lo più i propri interessi – e quelli dei propri amici e familiari – invece che quelli di tutti.
Il Libano ha un sistema politico complesso, che riflette la diversità religiosa del paese.
Dal 1943, con la nascita del Libano moderno, le tre principali cariche istituzionali (presidente, capo del parlamento e primo ministro) sono state affidate alle tre più grandi comunità nazionali – rispettivamente cristiani maroniti, musulmani sciiti e musulmani sunniti; anche il parlamento è stato diviso su linee settarie, e prevede la presenza di dieci gruppi religiosi. Con la fine della guerra civile, nel 1990, i leader politici di ciascuna comunità hanno mantenuto il loro potere attraverso un sistema clientelare, con l’obiettivo di proteggere gli interessi del proprio gruppo, anche attraverso manovre illegali.
Questo sistema, hanno scritto sul Washington Post i giornalisti Jamal Ibrahim Haida e Adeel Malik, «ha consentito agli oligarchi in competizione l’uno con l’altro di trasformare i legami politici e l’accesso alle istituzioni governative in privilegi economici per le élite libanesi, a spese delle politiche economiche destinate a una popolazione più ampia». In altre parole: i leader libanesi non hanno mostrato davvero interesse ad attuare le riforme di cui il paese aveva bisogno, perché attuarle avrebbe significato indebolire il loro potere. L’ultimo tentativo di riforme risale ad aprile, quando il nuovo governo ha promesso un piano ampio di riforme economiche. Anche in questo caso, come era già successo in passato, il governo è sembrato incapace di agire in maniera indipendente dalle élite settarie che dominano i processi economici e politici del paese.
Questo sistema ha anche reso vulnerabile il Libano a profonde ed estese interferenze esterne, come quella dell’Iran, che appoggia il gruppo radicale sciita Hezbollah, considerata la forza politica e militare più potente del paese, e quella dell’Arabia Saudita, che per esempio nel novembre 2017 tenne in ostaggio per diversi giorni l’allora primo ministro libanese Saad Hariri, costringendolo a dimettersi, seppur temporaneamente.
È anche per tutte le problematicità del sistema libanese che negli ultimi anni diversi paesi stranieri e organizzazioni internazionali, come il Fondo Monetario Internazionale, sono diventati sempre più restii a dare altri soldi al Libano senza la sicurezza di cambi strutturali profondi.
Il timore di molti è che l’enorme esplosione avvenuta martedì al porto di Beirut possa far precipitare definitivamente la situazione: che possa creare ulteriori limitazioni alle importazione, soprattutto dei beni di prima necessità; che possa creare una crisi abitativa senza precedenti, visto che le persone senza casa sono decine di migliaia; che possa alimentare nuove proteste violente contro il governo, accusato tra le altre cose di avere lasciato più di duemila tonnellate di nitrato di ammonio in un deposito del porto della capitale per ben sei anni; e che possa far collassare il sistema sanitario nazionale, con molti ospedali della capitale già al limite per l’arrivo di pazienti con la COVID-19, e ora anche danneggiati dall’esplosione.
«Il Libano non è più sull’orlo del collasso. L’economia libanese è già collassata», ha detto al Washington Post Fawaz Gerges, docente di relazioni internazionali alla London School of Economics. «Il modello libanese nato alla fine della guerra civile ha fallito. Era una costruzione fragilissima, ed è andata in frantumi, senza più speranze di ricomposizione».