Bologna, 2 agosto 1980
La storia della strage più letale della storia repubblicana – 85 morti, 200 feriti – e delle lunghissime indagini che sono seguite
La mattina del 2 agosto 1980 l’interno della stazione di Bologna era piuttosto affollato. Fuori faceva un gran caldo e le persone stavano approfittando dell’aria condizionata della sala principale della stazione, ignare del fatto che in una sala d’aspetto di seconda classe, sopra a un tavolino, c’era una valigia contenente una bomba di 23 chili. Alle 10.25 quella bomba esplose, uccidendo 85 persone e ferendone oltre 200 in una strage che rimase profondamente impressa nell’opinione pubblica italiana, per la sua entità ma anche per la lunga serie di inchieste giudiziarie e depistaggi che si trascinarono nei decenni successivi, fino a oggi.
Il boato dell’esplosione fu enorme e l’impatto fece crollare una larga parte del tetto e danneggiò pesantemente il treno Ancona-Chiasso che sostava sul binario 1. La prima versione dei fatti – diffusa dalle autorità per evitare allarmismi – parlava dello scoppio di una caldaia, ma quando in tarda mattinata arrivarono le prime rivendicazioni fu chiaro che doveva essere stata una bomba. Del resto lo scenario che si trovarono davanti i soccorritori era inequivocabile e terribile, come testimoniano le foto e le immagini girate all’epoca.
Dato il periodo, molti medici erano in ferie e i soccorsi ebbero qualche difficoltà viste le dimensioni della strage: c’erano poche ambulanze e quindi si decise spontaneamente di utilizzare l’autobus della linea urbana 37 per trasportare i morti, permettendo così alle ambulanze di trasportare solamente i feriti. Insieme all’autobus della linea 37, un altro simbolo della strage è l’orologio della stazione, rimasto fermo da allora alle 10.25.
Negli anni diversi testimoni hanno raccontato cos’era la stazione dopo le 10.25 di quel giorno. Cristina Caprioli aveva un fratello di 20 anni, Davide, che morì quel giorno, e qualche anno fa diede un’intervista al programma della Rai Il Tempo e la Storia in cui descrisse ciò che vide quando arrivò alla stazione, dopo aver ricevuto una telefonata dalla ragazza di Davide che era con lui: «Vedevo solo polvere e sangue, sentivo urla», disse Caprioli. «Un odore nelle narici, un odore che non ho mai dimenticato. E poi soprattutto questo silenzio glaciale e le urla dei soccorritori, “ho trovato, ho trovato! Aiuto, aiuto!”. C’erano mani dappertutto, pezzi, sangue dappertutto, gambe». Il corpo di una delle vittime non fu mai trovato, e si pensa sia stato disintegrato dall’esplosione.
La strage di Bologna va inquadrata in un contesto complicato della storia repubblicana, quello degli “anni di piombo”. Sintetizzando, durante quegli anni la stabilità democratica del paese fu quasi rovesciata dalle stragi, dagli omicidi e dai sequestri di alcuni gruppi armati estremisti, di destra e di sinistra. Convenzionalmente si ritiene che questo periodo sia iniziato nel 1969, con la bomba di piazza Fontana a Milano, e che sia poi culminato nella strage di Bologna.
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I vari gruppi agirono per motivi e con metodi molto diversi tra loro: in generale, i gruppi di sinistra come le Brigate Rosse si concentrarono principalmente contro obiettivi che ritenevano simboli di un sistema da scardinare. In quest’ottica scelsero persone singole da colpire, soprattutto giudici, giornalisti e politici: l’esempio più famoso è il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro.
I gruppi armati di estrema destra ragionavano in modo diverso e seguivano quella che divenne nota come “strategia della tensione”: il loro obiettivo era provocare lo stato di emergenza e far sentire tutti in pericolo, per minare la democrazia e instaurare un regime autoritario. Per farlo, scelsero come obiettivi posti molto affollati, allo scopo di colpire più persone possibili: treni, banche, stazioni, posti frequentati da gente comune che nell’intento dei neofascisti non avrebbe dovuto mai sentirsi al sicuro, da nessuna parte. Il senso di smarrimento e insicurezza generale avrebbe dovuto quindi condurre, sempre secondo i gruppi di destra, a un colpo di stato o almeno all’introduzione di leggi speciali per ristabilire l’ordine.
Ci provarono con la bomba di piazza Fontana, con quella di Bologna, ma anche con quella di Brescia, messa a piazza della Loggia durante una manifestazione antifascista, e con quella del treno Italicus.
Le vicende giudiziarie della strage di Bologna sono tortuose e complesse e continuano ancora oggi. L’ultima sentenza della corte di Bologna è arrivata il 9 gennaio 2020, e ha condannato Gilberto Cavallini per aver aiutato Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, questi ultimi condannati come esecutori materiali dell’attentato. Cavallini, come gli altri tre, era un terrorista dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), un gruppo neofascista particolarmente violento coinvolto in diversi omicidi e di cui faceva parte anche Massimo Carminati, l’uomo al centro dell’inchiesta cosiddetta “Mafia Capitale”.
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I processi hanno individuato e condannato anche chi ha cercato di depistare le indagini: Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, che ebbe un ruolo centrale in quel tentativo di sovvertire l’ordine democratico, e tre membri dei servizi segreti militari: il generale Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte e Francesco Pazienza. In un altro processo sul depistaggio sono stati invece assolti Massimo Carminati e Federigo Mannucci Benincasa, un altro dirigente dei servizi segreti militari.
I mandanti della strage non sono mai stati individuati. Le indagini si sono concluse l’11 febbraio 2020 e andranno a giudizio diversi imputati. L’ex membro di Avanguardia Nazionale Paolo Bellini è accusato di aver partecipato alla strage per mandato di Licio Gelli e del suo collaboratore Umberto Ortolani. Gli altri presunti mandanti sarebbero il funzionario del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, che fu senatore del Movimento Sociale Italiano e per decenni direttore della rivista di destra Il Borghese.
Gelli, Ortolani, D’Amato e Tedeschi sono tutti morti, circostanza che secondo il codice penale italiano estingue il reato. Gli altri imputati sono accusati di aver ostacolato le indagini: sono l’ex carabiniere Piergiorgio Segatel, l’ex generale dei servizi segreti Quintino Spella e Domenico Catracchia, che gestiva gli appartamenti di via Gradoli (a Roma) per conto dei servizi segreti. Il sindaco di Bologna Virginio Merola ha assicurato che nel processo il comune di Bologna «si costituirà, come sempre, parte civile».