Non ci sono più gli Stati Uniti di una volta
Il paese che per 75 anni è stato indispensabile per gli equilibri globali ha iniziato da tempo un disimpegno che sta cambiando il mondo: c'entra anche Donald Trump, ma non solo
di Elena Zacchetti
Per gli ultimi 75 anni – ma anche qualcuno di più – gli Stati Uniti sono stati considerati come un paese unico e indispensabile per gli equilibri mondiali, e punto di riferimento culturale e politico per i sistemi democratici occidentali. Nel corso dei decenni i governi americani hanno costruito alleanze politiche e militari di enorme rilevanza, come la NATO, hanno stretto solidi rapporti commerciali con gli altri paesi occidentali e hanno partecipato da protagonisti a guerre e crisi in mezzo mondo. Da un po’ di tempo, però, le cose sono cambiate. Gli Stati Uniti hanno cominciato a “ritirarsi”, come si dice, cioè a guardare sempre più al loro interno e occuparsi sempre meno di quello che succede fuori, lasciando spazio ad altri paesi – altre “grandi potenze” – come la Cina e la Russia.
Questo processo – che alcuni definiscono “declino”, altri “disimpegno” – sembra essere iniziato diversi anni fa, già con Barack Obama, come conseguenza dell’ascesa della Cina ma anche della crisi economica del 2008 e delle fallimentari operazioni militari in Iraq e in Afghanistan. Ma è accelerato in maniera significativa durante la presidenza di Donald Trump, forse quella che ha segnato la maggiore discontinuità nella storia della politica estera americana dalla Seconda guerra mondiale a oggi, e che si è basata su un concetto non sempre decifrabile, quello di “America First” (“L’America prima di tutto”).
Trump ha ribaltato molti dei paradigmi che erano stati alla base delle politiche dei presidenti che lo avevano preceduto, e che avevano permesso di fare degli Stati Uniti quello che sono oggi: ha rinunciato al multilateralismo, cioè la struttura su cui è basato un pezzo dell’attuale sistema internazionale e che favorisce accordi molto ampi tra paesi, ed è entrato in conflitto in maniera sistematica con diversi paesi tradizionalmente alleati, come la Germania. A scelte quanto meno spericolate, e approcci raramente visti prima, si sono aggiunte politiche disastrose, come la gestione dell’epidemia da coronavirus: durante la crisi Trump ha fatto male – e lo dicono tutti, al di fuori dei suoi sostenitori più incalliti – e gli Stati Uniti sono diventati ancora meno un paese che possa presentarsi come un modello. È cambiata la loro posizione nel mondo, ed è cambiato soprattutto il modo in cui sono visti dagli altri, con conseguenze enormi per tutti.
«Come cittadini del mondo che gli Stati Uniti hanno creato, ci siamo abituati a sentir parlare quelli che detestano l’America, quelli che l’ammirano e quelli che ne hanno paura (a volte tutti nello stesso momento). Ma avere pietà dell’America? Questa è una cosa nuova», ha scritto il giornalista dell’Atlantic Tom McTague.
Come siamo arrivati fin qui?
Il sistema internazionale in cui viviamo oggi fu creato dopo la Seconda guerra mondiale e cambiò nuovamente alla fine della Guerra fredda, con il crollo dell’Unione Sovietica. All’epoca, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, gli Stati Uniti assunsero un ruolo di netta supremazia nel mondo, almeno fino a che il mondo iniziò a cambiare di nuovo, questa volta senza eventi traumatici ma in maniera progressiva. La Cina cominciò a crescere a un ritmo forsennato, diventando il principale avversario degli Stati Uniti, e la Russia a rimettersi insieme, iniziando diverse campagne militari aggressive sia in Europa (Ucraina) che in Medio Oriente (Siria e Libia).
Allo stesso tempo negli Stati Uniti si videro i primi segnali forti dell’opposizione dell’opinione pubblica verso nuove iniziative militari, soprattutto dopo la guerra in Iraq del 2003, nella quale furono uccisi migliaia di soldati americani e che contribuì a produrre conseguenze disastrose per l’intera regione, tra cui la crescita dell’ISIS. La crisi economica del 2008 – e in generale le crescenti diseguaglianze prodotte dal capitalismo americano – convinsero sempre più elettori che ogni governo americano dovesse dedicarsi innanzitutto a quello che avveniva dentro i confini del paese e non fuori: un sentimento rafforzato dal rifiuto dell’immigrazione che guadagnava consensi anno dopo anno come nel resto dell’Occidente.
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Crebbe quindi il rifiuto di nuove guerre ma non solo quello, ha scritto Dan Balz, giornalista del Washington Post che si occupa di politica statunitense. In entrambi i partiti politici americani crebbe l’opposizione al cosiddetto “globalismo”, cioè a quell’approccio che vede il mondo profondamente interconnesso. Per esempio nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2016, vinte poi da Trump, la Democratica Hillary Clinton si rifiutò di appoggiare pubblicamente il TPP (Trans-Pacific Partnership), trattato di libero scambio fra i più grandi al mondo che lei stessa aveva sostenuto poco prima nel ruolo di segretaria di Stato, sotto la presidenza di Barack Obama. Fu un cambio importante per la posizione degli Stati Uniti nel mondo, ma non fu il primo.
Tre anni prima, nel 2013, era successo qualcosa di grosso – o meglio, non era successo – che aveva iniziato a cambiare la percezione che molti paesi avevano degli Stati Uniti come “poliziotti del mondo”. In Siria il presidente Bashar al Assad aveva superato la cosiddetta “linea rossa” annunciata in precedenza da Obama, perché aveva attaccato la propria popolazione civile con armi chimiche nella periferia della capitale Damasco. Obama aveva detto che se Assad lo avesse fatto, gli Stati Uniti sarebbero intervenuti militarmente contro di lui: ma non andò così, perché Obama si rifiutò di farsi coinvolgere troppo nella guerra siriana temendo un nuovo conflitto lungo, impopolare e dagli esiti incerti.
Fu un momento importante, perché se c’è una cosa che è sempre contata nella politica estera americana, oltre alla forza militare in sé, è il concetto di credibilità. Gli Stati Uniti hanno mantenuto una posizione predominante nel mondo per decenni usando non solo la forza, ma anche la minaccia della forza, perché era credibile: era credibile che aiutassero gli alleati in difficoltà e anche che intervenissero nelle crisi più gravi, anche se con risultati molto alterni. La decisione di Obama di non intervenire in Siria, venendo meno alla sua parola, cominciò a minare la credibilità americana: gli alleati degli Stati Uniti si sarebbero fidati nuovamente di loro? O avrebbero avuto dei dubbi e si sarebbero rivolti altrove?
Sono due questioni di cui si parlò molto allora, e che sono rimaste attuali anche oggi.
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Secondo Richard Gowan, direttore dell’International Crisis Group ed esperto di ONU e sicurezza europea per l’European Council on Foreign Relations, ci furono tre processi che contribuirono al declino del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, ancora prima di Trump: uno spostamento di potere dagli Stati Uniti alla Cina, che ridusse la capacità americana di decidere che questioni affrontare e quando, e di guidare azioni collettive; una crisi di rilevanza delle organizzazioni internazionali, come l’ONU, non più in grado di trovare soluzioni a situazioni complesse, come la guerra in Siria, a causa dei veti incrociati e della crescente rilevanza di Cina e Russia; e una crisi di legittimità delle stesse, con l’emergere di leader nazionalisti pronti a ritirare i propri paesi da trattati e accordi multilaterali (si pensi a Brexit, per esempio).
Tutti questi processi si verificarono negli anni sia di Obama che di Trump, due presidenti che di fronte a problemi simili adottarono però soluzioni molto diverse.
Obama cercò di bilanciare il disimpegno militare americano nel mondo, quindi la necessità elettorale e politica di riportare i soldati “a casa” e di investire meno risorse in costose campagne militari all’estero, con un rafforzamento della politica di “engagement” (inclusione) nei confronti dei paesi considerati avversari. Invece di fare la guerra all’Iran, per esempio, Obama firmò uno storico accordo sul nucleare con cui gli Stati Uniti si assicuravano di impedire il processo di costruzione dell’arma nucleare iraniana e l’Iran si garantiva la rimozione di una parte delle sanzioni internazionali imposte sulla sua economia, allo scopo di avvicinarlo alla comunità internazionale. Obama firmò inoltre un’altra serie di accordi internazionali molto importanti, come il TPP e l’Accordo di Parigi sul clima. Puntò molto sulle sue relazioni con i leader europei, i principali alleati degli Stati Uniti nel mondo.
Trump, fin dall’inizio della sua presidenza, ha fatto il contrario.
Già durante la campagna elettorale, si presentò con idee piuttosto radicali. Sostenne che le altre nazioni si fossero sempre approfittate degli Stati Uniti, aggiungendo che «il mondo si prende gioco dei politici americani». Trump accusò in particolare gli alleati degli americani di non pagare a sufficienza la protezione che gli Stati Uniti offrivano loro: un discorso che nel corso della sua presidenza sarebbe diventato familiare a molti, in particolare ai paesi europei membri della NATO, accusati di non dedicare abbastanza risorse alle spese militari.
Nel suo discorso inaugurale, dopo avere sconfitto Hillary Clinton alle elezioni del 2016, Trump disse tra le altre cose: «Cercheremo amicizia e benevolenza di fronte alle nazioni del mondo, ma lo faremo con la consapevolezza che sia diritto di tutte le nazioni mettere i propri interessi prima di tutto il resto». “Mettere i propri interessi prima di tutto il resto” fu il passaggio chiave: ma cosa voleva dire esattamente?
Per molto tempo i governi statunitensi si mossero per creare un sistema internazionale fatto di moltissime relazioni e rapporti – un sistema multilaterale, per l’appunto – attraverso il quale mantenere di fatto una posizione predominante nel mondo. Questo sistema, stava sostenendo Trump, non aveva funzionato: per rendere di nuovo grande l’America –”Make America Great Again”, era stato un importante slogan della sua campagna – c’era bisogno di cambiare tutto.
Nel concetto di “America First” di Trump, ha scritto Dan Balz sul Washington Post, c’erano moltissime cose: un’attenzione particolare al commercio (così particolare che la politica estera di Trump è stata spesso accusata di essere unidimensionale, quindi occuparsi del commercio e poco altro), una politica migratoria molto restrittiva («riprendiamoci i nostri confini», aveva detto nel discorso inaugurale), forti pressioni agli alleati per contribuire di più nelle spese della difesa comune, e il ricorso a negoziati bilaterali invece che multilaterali. Nell’idea iniziale di Trump, inoltre, “America First” non significava “America Alone” (“L’America sola”), come invece suggeriva qualcuno. Nel maggio 2017 H.R. McMaster e Gary Cohn, allora rispettivamente consigliere di Trump alla sicurezza nazionale e direttore del National Economic Council, chiarirono questo concetto in un op-ed sul Wall Street Journal, dicendo che “America First” «è un impegno a proteggere e promuovere i nostri interessi vitali e allo stesso tempo rafforzare la cooperazione e rendere più solide le relazioni con i nostri alleati e partner».
Nella pratica, però, “America First” si è tradotta in qualcosa di diverso, per tre ragioni: per alcune contraddizioni interne alla teoria, come la difficoltà di conciliare l’idea di mettere davanti l’interesse americano a ogni costo e quella di non perdere amici per strada; per la completa imprevedibilità di Trump di fronte alle crisi; e per la sua scarsissima fiducia nella diplomazia e nei processi negoziali. Negli ultimi quattro anni Trump ha progressivamente eroso il sistema su cui si era basato il potere americano nell’ultimo secolo. McMaster e Cohn, così come gli altri suoi consiglieri più esperti, sono stati licenziati e sostituiti con funzionari ben più inesperti e radicali.
Anzitutto Trump ha abbandonato l’approccio multilaterale: non solo perché non ha partecipato ad alcune importanti iniziative internazionali, come l’incontro in video di molti leader mondiali per finanziare lo sviluppo di un vaccino per il coronavirus, ma anche e soprattutto perché ha ritirato gli Stati Uniti – in ordine – dal TPP, dall’Accordo di Parigi sul clima, dall’accordo sul nucleare iraniano e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Trump ha messo in discussione più volte la NATO, definendola obsoleta e accusando gli stati europei di approfittarsi della protezione americana (ignorando per esempio che l’articolo 5 del trattato della NATO, quello che prevede l’automatismo dell’intervento militare nel caso in cui uno dei membri dell’organizzazione subisca un attacco da un paese esterno, è stato applicato una sola volta negli oltre 70 anni di vita dell’alleanza: dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 compiuti da al Qaida a New York e Washington). Ha indebolito sensibilmente la diplomazia statunitense, tra le altre cose non nominando nuovi diplomatici americani in posti molto importanti, e preferendo una politica estera iper-personalistica convinto di poter mettere fine da solo a crisi in corso da decenni: per esempio si è incontrato con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, dopo che era stato lui stesso ad alzare la tensione in maniera considerevole e senza essere riuscito finora a ottenere risultati realmente positivi.
Nicholas Burns, ex ambasciatore statunitense alla NATO, ha detto: «Il presidente Trump sta agendo come nessun altro governo americano dagli anni Venti del Novecento. I presidenti che lo hanno preceduto erano coinvolti negli affari del mondo. Trump non lo è. È quasi in guerra con il mondo». In un articolo intitolato “America and the Great Abdication” e pubblicato sull’Atlantic nel dicembre 2017, Richard Haass, presidente del centro studi indipendente Council on Foreign Relations, scriveva: «Trump è il primo presidente americano dal secondo dopoguerra a considerare il peso di mantenere la leadership mondiale superiore ai suoi benefici. Come risultato, gli Stati Uniti, che erano la principale forza protettrice dell’ordine mondiale, sono diventati la sua principale forza distruttrice».
Le mosse di Trump sono state vissute con stupore e incredulità, almeno all’inizio, dagli alleati europei, che hanno protestato ripetutamente senza però ottenere nulla. Il tutto mentre Trump mostrava evidentemente molta più indulgenza, gentilezza e cordialità con leader autoritari come Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdoğan e Kim Jong-un.
Già dopo i suoi primi due anni di presidenza, Trump aveva litigato numerose volte con i principali leader europei, soprattutto con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron. L’Europa aveva accusato Trump di non rispettare le normali regole di convivenza del sistema internazionale, per esempio ritirandosi unilateralmente dall’accordo sul nucleare iraniano, e aveva protestato per le minacce statunitensi di iniziare una guerra commerciale contro l’Unione Europea.
Già allora era chiaro come non ci fosse modo che le due parti riuscissero a mettersi d’accordo. Il giornalista Walter Russell Mead, per esempio, scriveva sul Wall Street Journal che Trump rifiutava tutto quello che l’Europa rappresentava nel sistema internazionale: un progetto politico post-nazionale, quindi sviluppato sul superamento del concetto di sovranità statale, e basato sull’interdipendenza tra paesi. Non solo.
L’Unione Europea aveva fondato buona parte della sua forza sul concetto che fosse possibile trovare un accordo tra stati che soddisfacesse tutte le parti coinvolte: creare quindi una situazione win-win, vincente per tutti. Trump la pensava diversamente. Credeva che le istituzioni internazionali come l’Unione Europea non potessero né dovessero svolgere un ruolo così importante, credeva che lo stato in quanto tale avrebbe continuato a rimanere il soggetto più forte e dominante della politica internazionale, e riteneva che le negoziazioni commerciali potessero avere un solo vincitore, e che fossero una specie di “gioco a somma zero”: chi vince prende tutto, mentre tutti gli altri sono perdenti.
Negli ultimi due anni le differenze sono diventate ancora più intense e le due parti hanno praticamente smesso di provare ad aggiustare le cose.
Il governo Trump, per esempio, ha mantenuto vacanti o semi-vacanti importanti ruoli diplomatici e di rappresentanza in Europa, dimostrando scarso interesse a migliorare le relazioni bilaterali. L’analista tedesco Ulrich Speck ha detto al New York Times che «Merkel ha rinunciato anche solo a pretendere che lei, come cancelliera tedesca, debba per forza lavorare insieme a un presidente americano, al di là di tutto», viste le enormi differenze tra i due, tra cui la posizione da prendere nei confronti della Cina. Della Cina ha parlato anche Thomas Gomart, direttore dell’Istituto francese di relazioni internazionali, che ha definito Trump «sempre più provocatorio verso i suoi alleati ogni giorno che passa» e lo ha accusato di creare divisioni che vengono poi sfruttate attivamente dal governo cinese.
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I rapporti tra le due parti sono peggiorati ulteriormente negli ultimi mesi, durante la pandemia da coronavirus, gestita in maniera molto discutibile da parte di Trump.
Oltre a non partecipare alla riunione in video per finanziare lo sviluppo di un vaccino, Trump è arrivato a uno scontro aperto con la Cina – accusata perfino di avere creato il virus in laboratorio – e ha attaccato ripetutamente l’Organizzazione Mondiale della Sanità, da cui poi ha ritirato gli Stati Uniti. Trump ha inoltre gestito la crisi senza una strategia nazionale precisa, sottovalutando la portata e la pericolosità del virus, diffondendo notizie false e dando indicazioni contraddittorie su moltissimi temi, tra cui l’uso delle mascherine. Oggi gli Stati Uniti sono tra i paesi più colpiti dal coronavirus, l’epidemia è fuori controllo e il numero dei nuovi casi giornalieri continua a essere spesso superiore rispetto a quello registrato il giorno precedente.
«Questa è forse la prima crisi globale in più di un secolo dove nessuno sta guardando agli Stati Uniti come paese in una posizione di leadership», ha scritto la giornalista Katrin Bennhold sul New York Times, che ha aggiunto: «[La pandemia] sta facendo traballare l’assunto fondamentale dell’eccezionalismo americano – cioè il ruolo speciale che gli Stati Uniti hanno assunto per decenni dopo la Seconda guerra mondiale, quando la dimensione dei loro valori e del loro potere li aveva resi un leader globale e un esempio per tutto il mondo». Ricardo Hausmann, direttore del Growth Lab al Centro per lo sviluppo internazionale dell’Università di Harvard, ha detto che «non solo manca una leadership globale, ma ne manca anche una nazionale e una federale all’interno degli Stati Uniti. In un certo senso, è un fallimento della leadership degli Stati Uniti negli Stati Uniti».
Secondo alcuni analisti, tra cui Kiron Skinner, direttrice delle politiche del dipartimento di Stato dal 2018 al 2019 e ora docente alla Carnegie Mellon University (Pittsburgh, Pennsylvania), negli ultimi quattro anni Trump si sarebbe mosso seguendo soprattutto il suo istinto e cercando di mettere in piedi una strategia sul piano internazionale. La sua noncuranza delle regole gli avrebbe permesso di fare cose che altri presidenti non avevano osato fare, per paura di provocare reazioni violente da parte dei nemici: per esempio uccidere il generale iraniano Qassem Suleimani, considerato l’architetto della politica aggressiva iraniana in Medio Oriente, particolarmente in conflitto con gli interessi americani.
Skinner ha sostenuto inoltre che Trump sia stato in grado di riconoscere una nuova realtà globale più velocemente di molti analisti politici, i quali non sarebbero «abbastanza veloci a costruire nuove teorie». Secondo alcuni, per esempio, lo scontro tra Stati Uniti e Cina si sarebbe verificato lo stesso, al di là di Trump, e anzi l’accelerata di Trump avrebbe contribuito a mettere in evidenza gli interessi profondamente diversi dei due paesi.
Secondo i critici, invece, la sua presidenza è stata piena di passi falsi, ultimi dei quali la gestione della pandemia da coronavirus e la reazione alle proteste del movimento “Black Lives Matter”, in corso da settimane in diverse città americane.
Negli ultimi quattro anni, sostengono i critici, Trump ha voluto ribaltare le regole in uso nel sistema internazionale, alla ricerca di un trattamento più giusto nei confronti degli Stati Uniti, in particolare da parte dei suoi alleati. A rapporti sempre più tesi con gli stati amici, come i paesi europei, Trump ha accompagnato tentativi diplomatici goffi e a volte contraddittori per avvicinarsi agli stati nemici, come la Corea del Nord e la Russia. Ha fatto tutto questo adottando un approccio iper-personalistico e trascurando i normali canali diplomatici, senza ottenere davvero risultati di successo. Voleva rendere l’America di nuovo grande, ma ha finito per isolarla e trasformarla in un alleato poco affidabile, un paese su cui non poter fare affidamento.
Ha accelerato quindi un processo che era già in atto, iniziato diversi anni fa, cioè quello di un costante declino della posizione degli Stati Uniti nel sistema internazionale.
Secondo Dan Balz del Washington Post, il prestigio degli Stati Uniti è diminuito negli ultimi anni, ma l’America sembra poter rimanere ancora un paese verso cui gli altri stati guardano durante le crisi. I litigi con l’Europa, e l’immagine di debolezza mostrata di recente, dipendono anche dalle aspettative che si sono create negli ultimi decenni verso gli Stati Uniti, molto più alte rispetto a quelle che si riservano a paesi che non hanno grande tradizione di leadership globale. Balz ha scritto che era già successo in passato che gli Stati Uniti fossero visti come un paese in declino: allora però era per il timore che potessero esercitare il potere in maniera eccessiva e unilaterale. Oggi è diverso: oggi si teme che non siano più disposti a usare il potere che ancora hanno per il bene del mondo.