In Italia fare pubblicità ai preservativi è complicato
Dato che sono "dispositivi medici" c'è un lungo percorso di autorizzazioni da fare per ogni spot, nonostante ci sarebbero valide ragioni di salute pubblica per promuoverne l'uso
In Italia le leggi sulle pubblicità dei “dispositivi medici”, cioè dei prodotti venduti a fini diagnostici, terapeutici, di prevenzione o di controllo di una malattia, sono molto rigide. Si vuole evitare infatti che un messaggio promozionale induca un uso improprio o eccessivo del dispositivo, che potrebbe avere un impatto negativo sulla salute. Tra i dispositivi medici, però, rientrano anche prodotti come i preservativi, il cui abuso non comporta rischi per la salute e di cui, anzi, l’utilizzo andrebbe promosso e reso accessibile a tutti per contenere efficacemente la diffusione delle malattie sessualmente trasmissibili.
«Oggi fare comunicazione sui preservativi è molto complicato», ha detto al Post Laura Savarese, Regulatory & Medical Affairs Director Sud Europa di Reckitt Benckiser, la multinazionale di cui fa parte il marchio di preservativi Durex: «Non solo non abbiamo alcuna possibilità di agire con tempestività, ma siamo costretti a rivedere continuamente il contenuto dei nostri materiali. Nel 2019 solo il 16 per cento delle nostre proposte è stato accolto senza modifiche. Spesso abbiamo dovuto cambiare i nostri slogan e reimpostare totalmente il nostro linguaggio facendo venire meno il messaggio che Durex si rivolge a tutti, senza distinzioni: coppie e single, comunità LGBTQ+, giovani e meno giovani».
Da quando esiste e nei vari paesi in cui vende preservativi, Durex ha sempre curato la propria immagine e la propria comunicazione in modo attento e innovativo, usando un linguaggio diretto e non convenzionale. L’importanza della creatività nel veicolare messaggi difficili come quelli legati al sesso sicuro è nota fin dagli anni Ottanta, quando in molti paesi del mondo si cominciarono a finanziare massicce campagne di comunicazione per promuovere l’uso del preservativo e limitare la diffusione dell’HIV. In quegli anni, i paesi che investirono di più in queste forme di promozione ― creando campagne che non passarono inosservate ― furono anche quelli in cui si diffuse una maggiore consapevolezza e il virus fu contenuto più efficacemente.
In Italia però il rapporto tra le istituzioni e la comunicazione sui temi della prevenzione sessuale è sempre stato complicato. In un libro del 2017 di Emanuele Gabardi, docente di Strategia pubblicitaria all’Università degli Studi di Milano, sono raccolti trent’anni di campagne pubblicitarie contro l’HIV da cui emerge la «mediocrità comunicativa» di alcune campagne promosse dalle istituzioni italiane. Secondo Gabardi la banalità dei messaggi era dovuta alla volontà di evitare critiche. Le campagne di alcune associazioni non governative, al contrario, riuscirono ad affrontare questi temi con più originalità ed efficacia. Un altro esempio di comunicazione di successo in questo ambito non è nemmeno una pubblicità: nel 1991 l’immunologo Fernando Aiuti, durante un congresso in cui si discuteva della possibilità che il virus dell’HIV si potesse trasmettere per via orale, baciò sulla bocca una donna sieropositiva. La fotografia scattata a quel bacio fece il giro del mondo.
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Il problema comunque non è solo italiano: qualche mese fa, negli Stati Uniti, il governatore dello Utah ha bloccato la distribuzione gratuita di centomila preservativi perché gli slogan stampati sulle confezioni erano troppo «maliziosi».
«Durex ha una potenza comunicativa di grandissimo rilievo ed è pronta a metterla a disposizione del ministero della Salute, del ministero dell’Istruzione, delle autorità, delle scuole, delle associazioni di pazienti come veicolo per aumentare l’efficacia degli interventi di educazione affettiva e sessuale nella lotta alle infezioni sessualmente trasmesse», ha detto Savarese, «ma per farlo è necessario un cambiamento».
Attualmente in Italia l’iter di approvazione di una campagna pubblicitaria per prodotti come i preservativi è molto lungo. L’azienda che li produce deve chiedere al ministero della Salute il rilascio dell’autorizzazione a effettuare una pubblicità sanitaria. Dopo aver ideato e progettato il materiale di comunicazione, deve presentare, di volta in volta, una domanda di autorizzazione corredata da tutte le informazioni sull’azienda, sul prodotto, sul tipo di comunicazione e sul mezzo di diffusione (TV, social network, affissioni, et cetera), oltre a pagare una tassa. Il ministero ha 45 giorni per valutare la richiesta e decidere di rifiutare l’autorizzazione, accettarla, oppure richiedere modifiche. In quest’ultimo caso, l’azienda potrà accettare le modifiche proposte o riformulare la proposta sapendo però che ogni modifica allungherà ancora di più la procedura.
«Ma non è solamente una questione di lunghezza dell’iter», ha detto Savarese, «a pesare è anche l’indefinitezza tecnica del processo autorizzativo e l’impatto che le modifiche ministeriali hanno sul messaggio promozionale dal punto di vista comunicativo, limitando fortemente l’approccio funzionale al rendere il contenuto più comprensibile e vicino alle esigenze e ai bisogni di determinate fasce di popolazione». Le linee guida impongono anche forti limiti alla possibilità di coinvolgere persone famose come testimonial: secondo Savarese, «nel caso specifico dei preservativi, caso unico nella categoria dei dispositivi medici, andrebbe considerato il potenziale educativo e comunicativo di un messaggio di prevenzione diffuso da un personaggio noto che potrebbe amplificarne la rilevanza».
La legge prevede che il ministero della Salute possa, con un proprio decreto, esentare alcune categorie di dispositivi dall’obbligo di autorizzazione alla pubblicità, ma questa possibilità non è ancora mai stata considerata. A gennaio, il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri, molto sensibile sul tema ed impegnato nella lotta alle malattie sessualmente trasmissibili come l’AIDS, rispondendo in Parlamento ad alcune interrogazioni sulla questione, aveva dimostrato di essere consapevole che una promozione dei preservativi più esplicita potrebbe aiutare a diffondere efficacemente la prevenzione sanitaria in ambito sessuale, e sarebbe quindi vantaggiosa per la salute pubblica.
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Secondo Sileri favorire la promozione dei preservativi eliminando l’autorizzazione ministeriale porterebbe a «una maggiore consapevolezza dei destinatari del messaggio pubblicitario sull’importanza della prevenzione e supporterebbe maggiormente l’azione di contrasto alle infezioni sessualmente trasmesse portata avanti dalle istituzioni». Il senso di controllare preventivamente le pubblicità è tutelare il cittadino, ha argomentato il viceministro, ma al contempo bisognerebbe tenere conto che i preservativi non possono nuocere alla salute, solo favorirla.
«Ora che la fase più dura dell’emergenza COVID-19 è stata superata», ha commentato Savarese, «ci auguriamo che il ministero ritorni sul tema e intervenga definitivamente nel varare il decreto ministeriale per escludere la pubblicità dei preservativi dall’iter autorizzativo».