Anche al Wall Street Journal si litiga sulla sezione delle opinioni
300 giornalisti hanno firmato una lettera di critiche alla sua linea, gli editorialisti hanno risposto che «le loro preoccupazioni non sono un nostro problema»
Questa settimana circa 300 giornalisti del Wall Street Journal – uno dei giornali statunitensi più antichi e importanti – hanno firmato una lettera all’editore del giornale Almar Latour criticando molto duramente la linea editoriale della sezione delle opinioni del giornale, e facendo proposte per cambiarla. Latour non ha per ora dato seguito alla lettera (almeno non pubblicamente), ma una risposta è arrivata dai giornalisti della sezione delle opinioni – una redazione separata e indipendente da quella che si occupa di notizie – che in un “messaggio ai lettori” hanno rivendicato la bontà del loro lavoro, spiegando di non avere intenzione di cambiare il modo in cui lo fanno.
La discussione è in parte simile a quella che c’è stata recentemente al New York Times: poche settimane fa il capo della sezione delle opinioni era stato costretto alle dimissioni dai suoi colleghi della redazione delle notizie dopo che aveva pubblicato l’articolo di un politico Repubblicano che chiedeva l’intervento dell’esercito per fermare le proteste iniziate dopo la morte di George Floyd. Il dibattito al Wall Street Journal, inoltre, somiglia a quello che c’è stato in molte redazioni statunitensi riguardo all’opportunità di pubblicare articoli con opinioni considerate “pericolose” dalla maggioranza dei giornalisti.
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Anche al Wall Street Journal la redazione delle notizie (la newsroom) e quella della sezione delle opinioni sono completamente separate. I giornalisti, salvo rare eccezioni, fanno parte di una o dell’altra e le due sezioni fanno capo direttamente all’editore e alla proprietà. Questo fa sì che le due parti del giornale abbiano spesso orientamenti diversi e che, ancora più spesso che al New York Times, siano a volte in contrasto. Soprattutto sulla politica le pagine delle opinioni ed editoriali del Wall Street Journal sono molto più conservatrici e di destra del resto del giornale.
È un effetto voluto: lo scopo della separazione delle due redazioni, infatti, è proprio quello di permettere una maggiore varietà di posizioni e garantire che il giornale dia spazio anche a idee non condivise dalla maggioranza dei giornalisti.
Al Wall Street Journal, un giornale considerato da sempre di orientamento moderatamente conservatore (e dal 2007 di proprietà di Rupert Murdoch), la redazione delle notizie è negli ultimi anni diventata mediamente più giovane e progressista, mentre la sezione delle opinioni è considerata ancora di orientamento conservatore.
Nella lettera inviata dai giornalisti all’editore del giornale (e trapelata alla stampa) sono citati diversi casi in cui gli articoli della sezione delle opinioni non rispettavano gli standard editoriali che sono altrimenti richiesti ai giornalisti del Wall Street Journal.
Viene per esempio citato un articolo del vice presidente degli Stati Uniti Mike Pence intitolato Non c’è una “seconda ondata” di coronavirus, che secondo i giornalisti della redazione delle notizie conteneva dati sbagliati sull’andamento dell’epidemia e informazioni in contrasto con quelle contenute in altri articoli di cronaca del giornale. Oppure un articolo intitolato Il mito del razzismo sistemico nella polizia, diventato tra i più letti del mese di giugno ma il cui ragionamento era in parte fondato su uno studio che era già stato corretto a causa di gravi errori e che è stato poi ritirato proprio a causa di come era stato erroneamente citato dal Wall Street Journal.
Secondo i firmatari della lettera, articoli come questi, con imprecisioni ed errori, rendono più difficile il lavoro dei giornalisti e dei reporter del giornale, anche a causa del fatto che molti lettori fanno fatica a capire che c’è una differenza tra gli articoli della redazione delle notizie e quelli della sezione delle opinioni.
«Alcuni di noi» si legge nella lettera, «si sono sentiti dire dalle loro fonti che non avrebbero più parlato con noi perché non ritengono che il Wall Street Journal sia indipendente dalla sezione delle opinioni; molti di noi hanno ricevuto proteste da lettori e fonti sulla faziosità del giornale dopo aver letto articoli della sezione Opinioni».
Inoltre, dicono i firmatari della lettera, il fatto che la sezione delle opinioni abbia spesso pubblicato articoli per minimizzare la questione razziale e contro il movimento Black Lives Matter hanno reso ancora più difficile per il giornale assumere giornalisti neri o di altre minoranze o averli come fonti per i loro articoli. «Fino a quando la sezione delle opinioni sarà in queste condizioni, per noi sarà difficile assumere persone che appartengono a minoranze o costruire con loro relazioni come fonti per i nostri articoli. È comprensibile perché qualcuno potrebbe non fidarsi del lavoro dei giornalisti del Wall Street Journal dopo aver letto che il razzismo sistemico della polizia è “un mito”».
Un articolo del New York Times ha spiegato che i problemi tra la redazione delle notizie e quella delle opinioni del Wall Street Journal non sono una cosa nuova, ma che fino a poche settimane fa i giornalisti si limitavano a lamentarsene privatamente e parlare del problema tra di loro. Le recriminazioni, ha spiegato al New York Times un ex redattore del Wall Street Journal, non hanno di solito a che fare con le idee espresse dagli articoli della sezione opinioni, ma con la mancanza di accuratezza e di fact checking e con gli articoli logicamente poco solidi e male argomentati.
La risposta della sezione delle opinioni, che da più di vent’anni è diretta da Paul Gigot, non tocca però questi temi, bensì la possibilità che queste proteste si traducano in una minore libertà editoriale per la sezione. Nella nota, pubblicata giovedì 23 luglio, si fa infatti riferimento alla cosiddetta cancel culture, un’espressione ormai diffusa negli Stati Uniti che indica la tendenza ad attaccare collettivamente persone famose di cui emergono comportamenti, idee o dichiarazioni ritenute sbagliate e offensive, chiedendo punizioni e che quelle opinioni non trovino più spazio (su riviste, giornali o nelle università).
Era probabilmente inevitabile che questa ondata progressista di cancel culture arrivasse al Wall Street Journal, come è arrivata in quasi ogni altra istituzione culturale, accademica, giornalistica e del mondo degli affari. Ma noi non siamo il New York Times. La gran parte dei giornalisti del Journal cercano di occuparsi delle notizie in modo giusto ed equo, e la nostra sezione delle opinioni offre un’alternativa all’uniformità delle idee progressiste che dominano quasi completamente i media di oggi.
La risposta, indirizzata ai lettori del giornale e non ai suoi giornalisti, cita anche l’importanza di avere due sezioni separate e indipendenti per garantire diversità di idee e, riferendosi ai firmatari della lettera, dice che «le loro preoccupazioni non sono in ogni caso un nostro problema».
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Una giornalista del Wall Street Journal, tra i firmatari della lettera, ha scritto su Twitter che la risposta stessa della sezione opinioni è una dimostrazione dei problemi che ha: perché parla di cancel culture quando le accuse erano relative invece a una mancanza di accuratezza editoriale e alla pubblicazione di articoli con gravi errori. Lo scontro dentro al Wall Street Journal è tuttavia stato interpretato da molti come parte del grande dibattito di cui fa parte anche quello sulla cancel culture e che si può riassumere così: bisogna privilegiare la diffusione di tutte le idee, anche quando sono sgradevoli o pericolose, o privilegiare la difesa delle persone e delle loro sensibilità?
Come era stato detto nei giorni del dibattito al New York Times che portarono alle dimissioni del capo della sezione opinioni James Bennet, è largamente accettata l’idea che non sia necessario dare spazio a ogni idea per salvaguardare la libertà di espressione. Nessun giornale rispettabile pubblicherebbe un articolo a difesa della schiavitù, per esempio. Secondo diversi giornalisti e intellettuali, tuttavia, l’asticella di cosa sia considerato giusto pubblicare si sta rapidamente spostando, creando una sorta di conformismo del pensiero.
I 150 autori e intellettuali che avevano firmato la lettera sulla cancel culture di cui si era discusso qualche settimana fa avevano parlato in parte anche di questo problema. Lo stesso ha fatto il noto editorialista del New York Times David Brooks in un articolo del 23 luglio intitolato Il futuro del nonconformismo, argomentando contro l’esclusione e la segregazione intellettuale e a favore di luoghi dove il pensiero possa svilupparsi «per capire» e non per mostrare la propria appartenenza a una parte.
Secondo Brooks, nella storia degli Stati Uniti c’è sempre stata qualche forma di esclusione intellettuale, prima nei confronti dei neri, poi degli appartenenti alla classe dei lavoratori e più recentemente verso i conservatori. Questo secondo Brooks ha provocato una tendenza all’insularità del pensiero: «Per molti nella destra lo scopo di pensare è cambiato. Pensare non è stato più uno strumento per comprendere. Pensare è diventato un modo di mostrare appartenenza. Le radio di destra ripetono all’infinito i mantra familiari che rassicurano i loro ascoltatori e ricordano loro di essere tutti parte della stessa squadra».
Questa segregazione del pensiero si è vista anche a sinistra, dove giornali e istituzioni culturali sono diventate sempre meno prone ad accettare la diversità di pensiero. Harvard, probabilmente la più importante università del mondo, ha un corpo docenti formato quasi completamente da progressisti; la rivista di sinistra The New Republic, dice Brooks, presenta meno punti di vista di un’equivalente rivista conservatrice; «Christopher Hitchens è stato uno dei più grandi saggisti americani. Oggi non troverebbe lavoro perché non c’era niente che avesse paura di offendere».
E secondo Brooks questa situazione ha gravi conseguenze, tra cui un progressivo allontanamento delle persone dalla realtà («la sinistra è stata colta di sorpresa dalla vittoria di Trump»), una maggiore fragilità, perché isolarsi dalle opinioni diverse dalle proprie rende più estreme le reazioni quando infine si incontrano quelle opinioni, e una tendenza al conformismo, perché gli autori tendono a scrivere come rappresentanti di un gruppo e ad essere sempre più prevedibili.