La Polonia vuole uscire dalla Convenzione di Istanbul
Cioè il testo più avanzato per prevenire e contrastare la violenza contro le donne: favorirebbe la cosiddetta "ideologia gender"
Il ministro polacco della Giustizia Zbigniew Ziobro ha detto di volersi dissociare dalla Convenzione di Istanbul, il testo più avanzato e il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica. La Convenzione è stata adottata dal Consiglio d’Europa nel 2011, sottoscritta dalla Polonia nel 2012 e poi ratificata nel 2015.
Ziobro aveva già definito la Convenzione di Istanbul «una fantasia e un’invenzione femminista volta a giustificare l’ideologia gay». Sabato scorso, durante una conferenza stampa, ha spiegato che oggi, lunedì 27 luglio, presenterà una richiesta al ministero della Famiglia per avviare il processo formale di ritiro dal trattato. Nel motivare la decisione, ha ribadito che la Convenzione contiene «elementi di natura ideologica» che ritiene «dannosi» e che non sono condivisi dall’attuale governo polacco, guidato dal partito di estrema destra Diritto e Giustizia (PiS). Ha citato il concetto di “genere” dicendo che nega la differenza di sesso tra uomini e donne, e ha detto che la Convenzione viola «i diritti dei genitori» chiedendo alle scuole di insegnare ai bambini che il sesso è una scelta. Ziobro ha fatto dunque riferimento alla cosiddetta “ideologia gender”, oggetto di critiche da parte del Papa, delle associazioni cattoliche e dei movimenti conservatori e di estrema destra di tutto il mondo, che viene presentata come una tesi che nega la differenza biologica tra uomini e donne.
Il ministro, infine, ha precisato che le leggi nazionali polacche sono già sufficienti per contrastare e prevenire la violenza maschile contro le donne, anche se diversi esperti ed esperte hanno fatto notare che le modifiche giuridiche degli ultimi anni – comunque non sufficienti – sono state introdotte in base ai requisiti previsti dalla Convenzione stessa.
– Leggi anche: Che cos’è e cosa non è l’ideologia gender
Venerdì e sabato migliaia di persone hanno manifestato a Varsavia e in altre venti città della Polonia contro il ritiro dalla Convenzione. L’attivista femminista Magdalena Lempart, una delle organizzatrici della protesta, ha detto che l’obiettivo del governo è «legalizzare la violenza domestica»; alcune donne durante il corteo hanno mostrato striscioni con la scritta «Il PiS è l’inferno delle donne». A Varsavia le manifestanti si sono ritrovate davanti alla sede dell’associazione Ordo Iuris, che nei mesi scorsi in Polonia ha fatto una campagna proprio contro la Convenzione di Istanbul sostenendo che metta in discussione l’autonomia e l’identità della famiglia.
Ordo Iuris è tra le organizzazioni polacche promotrici della proposta di legge chiamata “Stop Aborto”, per ridurre le già limitatissime situazioni in cui una donna in Polonia può ricorrere legalmente all’aborto e della legge per criminalizzare l’insegnamento dell’educazione sessuale. L’associazione ha legami anche con il gruppo internazionale ultraconservatore Agenda Europe e con le reti antiabortiste, antifemministe e anti-LGBTQI di mezzo mondo che hanno organizzato a Verona, nel 2019, il Congresso Mondiale delle Famiglie con l’obiettivo politico di approvare leggi a favore della “famiglia tradizionale” (cioè patriarcale ed eterosessuale) e rovesciare le leggi esistenti su aborto, diritti riproduttivi, matrimoni omosessuali e diritti delle persone LGBTQI.
Le studiose e gli studiosi di questi movimenti denunciano da tempo come, nel mondo, cerchino di muoversi in modo coordinato. Lo scorso maggio era stato il parlamento ungherese, guidato dal partito conservatore e populista Fidesz del primo ministro Viktor Orbán, a non ratificare la Convenzione di Istanbul. E lo scorso febbraio era stato il partito nazionalista slovacco a proporre di non votare la firma del trattato, riuscendoci: e insistendo nel dire, senza fondamento, che il testo era in contrasto con la definizione costituzionale di matrimonio come unione tra un uomo e una donna.
Queste reti sono appoggiate nei vari paesi anche dai vescovi, che in Polonia sono molto vicini al governo. La Chiesa polacca – una delle più conservatrici e reazionarie al mondo – ha avuto un ruolo decisivo nel plasmare l’identità nazionale e durante il comunismo è stata uno dei primi bastioni di resistenza contro il dominio sovietico. Papa Giovanni Paolo II, il primo papa polacco, diventato santo nel 2014, è venerato sia come autorità morale sia per la sua opposizione al comunismo. In Polonia ancora oggi non avviene nessuna cerimonia pubblica a cui non sia presente almeno un membro del clero, e il partito di governo Diritto e Giustizia usa la propria alleanza con la chiesa, con cui condivide moltissime priorità, per legittimare il proprio potere. Il presidente Andrzej Duda, che pur essendo formalmente indipendente è legato a Diritto e Giustizia (PiS), è stato rieletto all’inizio di questo mese mettendo al centro della propria campagna elettorale il contrasto ai diritti delle persone LGBTQI («più distruttivi del comunismo») e un aperto anti-femminismo.
Contro la proposta polacca di abbandonare la Convenzione di Istanbul hanno preso posizione i movimenti femministi di altri paesi – che sostenendo i movimenti locali sono finora riusciti a bloccare i tentativi governativi di limitare la libertà delle donne – ma anche, a livello istituzionale, diversi membri del parlamento europeo e il Consiglio d’Europa. A conclusione del recente Consiglio Europeo che si è tenuto a Bruxelles è stato tra l’altro approvato all’unanimità il principio di vincolare l’erogazione dei fondi a un giudizio delle istituzioni europee sul rispetto dello stato di diritto nei singoli paesi. Nella discussione sulla necessità del rispetto dello stato di diritto per accedere ai fondi, un ruolo fondamentale l’hanno avuto le attuali situazioni politiche di Polonia e Ungheria.