L’indagine su Attilio Fontana, spiegata
Il presidente della Regione è accusato di “frode in pubbliche forniture” per la storia dei camici forniti alla Lombardia dall’azienda di suo cognato
Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana è indagato dalla Procura di Milano per la storia dei camici che l’azienda di suo cognato, Andrea Dini, cercò di vendere alla Regione durante le settimane più complicate dell’epidemia da coronavirus. La notizia è stata data venerdì sera dai giornali e confermata da Fontana stesso con un messaggio su Facebook in cui si è detto «certo dell’operato della Regione Lombardia che rappresento con responsabilità». Secondo il Corriere della Sera, Fontana è indagato per “frode in pubbliche forniture”, perché a differenza di quanto ha sempre sostenuto sembra sapesse degli affari in corso tra la Regione e l’azienda di suo cognato. Insieme a lui, si sapeva già da inizio luglio, sono indagati anche Andrea Dini e il direttore generale di Aria, la centrale acquisti della Lombardia, Filippo Bongiovanni.
A parlare della fornitura di camici erano stati inizialmente il Fatto Quotidiano e Report, tra il 7 e l’8 giugno. Il 16 aprile, nel pieno dell’emergenza coronavirus, la centrale acquisti della Lombardia Aria assegnò una fornitura per camici e altri dispositivi di protezione a Dama S.p.A., società che produce il marchio di abbigliamento Paul & Shark di proprietà di Andrea Dini e, per il 10 per cento, di Roberta Dini, moglie di Fontana. La fornitura riguardava un totale di 82mila pezzi e un valore di 513mila euro e Report aveva trovato la lettera di acquisto indirizzata da Aria a Dama S.p.A., in cui si diceva che il bonifico con i 513mila euro sarebbe stato erogato entro due mesi dal 16 aprile.
Il 20 maggio, più di un mese dopo l’assegnazione della fornitura, Dini aveva tuttavia scritto una mail al direttore di Aria, Bongiovanni, spiegandogli di aver deciso di trasformare la vendita in una donazione: Report aveva verificato che esistono le note di credito che annullano le fatture per i camici, emesse tra il 22 e il 28 maggio, ma che riguardano un valore complessivo di 359mila euro sui 513mila della fornitura. Secondo Report, la decisione di trasformare la vendita in donazione è stata presa negli stessi giorni in cui i suoi giornalisti avevano cominciato a fare domande sulla vicenda.
Intervistato da Report, Dini aveva spiegato che la vendita dei camici alla Regione era stata decisa in un periodo in cui lui non si trovava in azienda e che al suo ritorno aveva subito deciso di annullare tutto perché aveva sempre inteso di voler donare quei camici. Fontana, il 7 giugno, aveva invece scritto su Facebook che Dama S.p.A. era solo una delle tante aziende che avevano riconvertito la produzione per fornire camici e mascherine alla Regione e che la fattura di 513mila euro era stata un errore dovuto a un «automatismo burocratico». In altre occasioni, Fontana aveva sostenuto di non aver saputo della fornitura se non molto dopo, quando a giugno ne avevano scritto i giornali, e di non essere mai intervenuto nella faccenda.
Sul Corriere della Sera, Luigi Ferrarella, ha tuttavia scritto che Fontana era stato informato da un suo collaboratore della fornitura e che il 19 maggio – il giorno prima che Dini scrivesse ad Aria dicendo di voler trasformare la vendita in donazione – Fontana cercò di fare un bonifico di 250.000 euro da un suo conto personale a Dama S.p.A., in quello che secondo il Corriere fu un tentativo di risarcire Dini per i mancati guadagni a cui sarebbe andato incontro annullando la vendita dei camici. Il bonifico, scrive sempre il Corriere, fu poi sospeso per sospetta violazione della normativa antiriciclaggio e segnalato alla Banca d’Italia, prima che l’11 giugno Fontana decidesse di cancellare l’operazione. I soldi per il bonifico, scrive inoltre Ferrarella, sarebbero arrivati da un conto in Svizzera in cui erano stati fatti confluire grazie allo “scudo fiscale” 5 milioni e 300 mila euro che fino al 2015 erano conservati alle Bahamas con due trust intestati alla madre di Fontana.
Quando Dini comunicò ad Aria la decisione di donare i camici, la fornitura da parte di Dama S.p.A. era già cominciata e parte del materiale, circa 50.000 pezzi, era già stata distribuita dalla Regione. Il resto della fornitura prevista, tuttavia, non fu donata alla Regione: Dini, scrivono i giornali, decise invece di provare a venderla ad altri, mettendosi in contatto tramite un intermediario con una Rsa di Varese e proponendo la vendita ad un prezzo più alto di quello inizialmente concordato con la Regione (9 euro a pezzo invece di 6). Questo spiegherebbe anche come mai le note di credito con cui furono annullate le fatture di Dama S.p.A. ad Aria non riguardavano il totale della fornitura.
Le questioni su cui sta indagando la procura di Milano sono almeno due, in questa storia. In primo luogo c’è l’assegnazione senza gara della fornitura a Dama S.p.A, in violazione delle regole sul conflitto di interessi (visti gli interessi della moglie di Fontana nella società). Poi c’è la questione del contratto iniziale di fornitura non rispettato da Dini, che dopo la decisione di donare i camici sembra avesse tentato di rivenderne una parte ad altri.