Lo scontro tra Cina e Stati Uniti, spiegato
Come si è arrivati alla chiusura dei consolati a Houston e a Chengdu, e cosa dobbiamo aspettarci adesso
Venerdì la Cina ha annunciato la chiusura del consolato statunitense a Chengdu, uno dei sei consolati che gli Stati Uniti avevano aperto in territorio cinese. La decisione è arrivata in risposta alla chiusura del consolato cinese a Houston, in Texas, di cui si è parlato molto negli ultimi due giorni: l’amministrazione di Donald Trump aveva infatti accusato il personale del consolato cinese a Houston di svolgere attività di spionaggio e raccolta illegale di informazioni al di là della soglia solitamente tollerata dalle autorità di un paese. In un gesto considerato piuttosto plateale, il personale cinese aveva poi dato fuoco a documenti non meglio specificati in vista della chiusura del consolato.
A load of small fires in the courtyard of China’s consulate in Houston were spotted right after America’s shock decision to order its closure.
Witness told local media they could smell paper burning.Video + details via @KPRC2Tulsipic.twitter.com/HCoZLirORP
— Ben Riley-Smith (@benrileysmith) July 22, 2020
La chiusura di uffici diplomatici non significa l’interruzione dei rapporti tra due paesi, o l’inizio di una crisi a cui non si possa rimediare in alcun modo, ma è un gesto comunque rilevante. Nel caso di Stati Uniti e Cina, ha scritto Anna Fifield, giornalista del Washington Post esperta di Asia, è il segno che i rapporti tra i due paesi sono «nel loro momento peggiore dal 1972», quando l’allora presidente statunitense Richad Nixon iniziò il lento processo di riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese (la Cina comunista), che fino a quel momento era stata ai margini della scena politica internazionale.
L’attuale situazione di tensione non si è creata improvvisamente e non è frutto solo delle accuse statunitensi di spionaggio al personale del consolato cinese di Houston. Da diverso tempo i rapporti tra la Cina, guidata dal potentissimo Xi Jinping, e gli Stati Uniti, governati da un’amministrazione che include funzionari con idee molto anti-cinesi, sono pessimi.
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In particolare, negli ultimi due anni i temi di scontro sono stati parecchi. C’è stata la cosiddetta “guerra commerciale“, basata sull’imposizione di dazi reciproci su centinaia di prodotti statunitensi e cinesi; la repressione cinese delle proteste a Hong Kong, che dopo l’approvazione della contestata legge cinese sulla sicurezza nazionale ha portato gli Stati Uniti a interrompere il trattamento speciale che il governo americano aveva riservato fino a quel momento alla regione autonoma cinese; l’accusa che Trump ha rivolto alla Cina di avere nascosto l’epidemia da coronavirus, e di essere responsabile di tutto quello che è venuto dopo; il peggioramento della cosiddetta “guerra fredda tecnologica”, con il tentativo del governo cinese di non dipendere più dai prodotti tecnologici americani e la decisione di Trump di vietare alle aziende statunitensi del settore di fare affari con quelle cinesi.
E poi ci sono state le recenti limitazioni per l’ingresso di diplomatici e studenti cinesi negli Stati Uniti, le proteste e sanzioni americane per la repressione della minoranza etnica degli uiguri, e l’espulsione di giornalisti americani dalla Cina.
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Tra le altre cose, hanno scritto Chun Han Wong e Liza Lin sul Wall Street Journal, Stati Uniti e Cina stanno litigando per «l’influenza globale»: in altre parole, non solo si stanno scontrando per questioni su cui hanno interessi divergenti, ma stanno anche cercando di contare di più del rispettivo avversario in generale, cioè a livello internazionale.
La rivalità tra i due paesi, e le ultime decisioni sui consolati di Houston e Chengdu, si sono intensificate anche per spinte interne ai due governi ad assumere posizioni sempre più intransigenti.
Da tempo, ha scritto Ishaan Tharoor sul Washington Post, la Cina si sta comportando in maniera sempre più assertiva, preoccupandosi poco delle eventuali reazioni degli altri paesi a politiche o decisioni aggressive e controverse. Di recente ha intensificato la repressione dei dissidenti nel territorio nazionale, in particolare a Hong Kong, e ha accelerato manovre espansionistiche nei mari oltre le sue coste orientali e lungo il suo confine montuoso con l’India. Anche il dibattito nazionale su alcuni temi particolarmente delicati è diventato sempre più aperto e pubblico, come la discussione su una eventuale invasione di Taiwan, paese alleato tra gli altri proprio degli Stati Uniti.
Spinte per un confronto più duro sono arrivate anche dall’amministrazione Trump, in particolare da Robert O’Brien, consigliere per la sicurezza nazionale, e dal suo vice, Matthew Pottinger, oltre che da alcuni settori del dipartimento di Stato.
Questi atteggiamenti belligeranti non sono nuovi: erano già stati adottati negli ultimi anni dal segretario di Stato americano Mike Pompeo verso alcuni regimi, tra cui quello iraniano (con la strategia della cosiddetta “massima pressione”) e venezuelano (contro il presidente Nicolás Maduro). Proprio giovedì Pompeo ha fatto un discorso durissimo contro la Cina, dicendo: «Dobbiamo ammettere una dura verità, che dovrà guidarci per gli anni e i decenni a venire, cioè che se vogliamo avere un Ventunesimo secolo libero, e non un Ventunesimo secolo che sogna Xi Jinping [il presidente cinese], il vecchio paradigma basato sul coinvolgimento cieco della Cina negli affari internazionali non dovrà più essere applicato».
Non è chiaro comunque se gli Stati Uniti abbiano una strategia precisa verso l’ultima crisi cinese, o la chiusura del consolato a Houston sia solamente una mossa realizzata per favorire Trump in vista delle prossime elezioni presidenziali. Jessica Chen Weiss, esperta di politica estera cinese, ha detto al Washington Post che «chiudere il consolato non sembra essere parte di una strategia coerente per impedire o obbligare la Cina a cambiare il suo comportamento. Sembra più una strategia del “colpisci e terrorizza” per distrarre gli elettori statunitensi dalla disastrosa risposta di Trump alla pandemia da coronavirus».
Gli effetti immediati della chiusura dei due consolati potrebbero essere minimi, almeno in termini pratici, anche se potrebbero causare problemi nelle procedure dell’emissione dei moltissimi visti di cui si occupava l’ufficio diplomatico americano di Chengdu.
La stessa decisione del governo cinese di chiudere il consolato a Chengdu – invece di uno tra quelli di Hong Kong, Shanghai o Guangzhou, più grandi e importanti – è stato visto come un segno della volontà cinese di non eccedere nella ritorsione, evitando un peggioramento ancora più rapido delle relazioni con gli Stati Uniti. Secondo diversi analisti citati dalla giornalista Anna Fifield, comunque, ad oggi non si vede ancora una fine del conflitto tra i due paesi, anche a causa delle molte questioni di scontro e disaccordo.