La regolarizzazione dei migranti non sta funzionando
I numeri sono piuttosto scarsi e mostrano che la procedura non sta riguardando il principale settore per cui era stata pensata, cioè l'agricoltura
di Giulia Siviero
Pochi giorni fa il governo ha prorogato al 15 agosto la scadenza della procedura per regolarizzare una parte delle persone migranti irregolari che vivono in Italia, inserita nel cosiddetto “decreto rilancio”. Secondo una stima iniziale del ministero dell’Interno, la misura avrebbe interessato oltre 200mila delle circa 600mila persone che vivono in Italia senza permesso di soggiorno e lavorano senza diritti in tre settori: agricoltura, lavoro domestico e assistenza alla persona. Qualche giorno fa è stato pubblicato un aggiornamento su come sta andando: non benissimo, o comunque non come il governo si aspettava.
Intanto e in breve: come funziona
Quella che il governo chiama “emersione dei rapporti di lavoro” prevede due modalità di regolarizzazione.
Il primo canale può essere attivato esclusivamente dal datore di lavoro che opera in uno dei comparti economici previsti dal decreto, che può presentare una domanda per assumere un lavoratore straniero già presente in Italia prima dell’8 marzo 2020 e che non se ne sia allontanato dopo l’8 marzo 2020 (la presenza deve essere dimostrata) oppure per regolarizzare un rapporto di lavoro già in essere, instaurato irregolarmente. In entrambi i casi il datore di lavoro deve dimostrare di avere la capacità economica per fare l’assunzione. In caso di accoglimento della domanda, al cittadino straniero viene dato un permesso di soggiorno per lavoro. Per attivare questo canale il datore di lavoro deve versare un contributo forfettario da 500 euro per ogni lavoratore: nel caso di dichiarazione di sussistenza di un precedente rapporto di lavoro irregolare, il datore di lavoro dovrà aggiungere un’ulteriore quota forfettaria per coprire le somme dovute a titolo retributivo, contributivo e fiscale.
La seconda modalità di regolarizzazione prevede che a presentare la domanda possa essere direttamente il cittadino straniero che è già stato titolare di un permesso di soggiorno, e permette di ottenere un nuovo permesso di soggiorno della durata di sei mesi. Per avviare questa procedura è necessario che il vecchio permesso di soggiorno sia scaduto dalla data del 31 ottobre 2019, senza che ne sia stato conseguito il rinnovo o la conversione; che il cittadino straniero risulti presente sul territorio nazionale dall’8 marzo 2020 senza che se ne sia allontanato successivamente; che abbia lavorato prima del 31 ottobre 2019 in uno dei tre comparti lavorativi a cui è vincolata la regolarizzazione. La persona è obbligata ad allegare alla domanda anche la fotocopia del passaporto, che può essere sostituita dalla fotocopia dell’attestato di identità rilasciato dalle autorità diplomatiche del paese di cittadinanza. In questo caso il costo a carico della persona che presenta la domanda è di 130 euro, più costi di servizio e marche da bollo, per un totale circa di 180 euro. Il permesso di soggiorno temporaneo ottenuto è valido solo nel territorio nazionale, consente di svolgere attività lavorativa solo ed esclusivamente nei comparti lavorativi a cui è vincolata la regolarizzazione e alla sua scadenza (se si dimostra che si è lavorato con un contratto in uno di quei tre settori) è possibile chiederne la conversione in permesso di soggiorno per lavoro.
Per attivare i due canali di emersione è comunque necessario che negli ultimi cinque anni il datore di lavoro non sia stato condannato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, o che il cittadino straniero non sia stato condannato per alcuni precisi reati.
I dati
A due settimane dall’apertura della procedura, le domande pervenute erano in tutto appena circa 32 mila, il 91 per cento delle quali riferite al lavoro domestico e di assistenza alla persona. Al 30 giugno, le domande arrivate erano circa 80 mila di cui, l’88 per cento riferite al lavoro domestico e di assistenza alla persona. Gli ultimi dati del ministero dell’Interno, aggiornati al 16 luglio, dicono che le domande di regolarizzazione ricevute sono 123.429, di cui cui 11.101 in corso di lavorazione. Per quanto riguarda i settori interessati, il lavoro domestico e di assistenza alla persona rappresenta l’87 per cento delle domande già perfezionate (97.968) e il 76 per cento di quelle in lavorazione (8.386). Nel frattempo il termine finale per la presentazione delle domande è stato prorogato dal 15 luglio al 15 agosto 2020.
I dati sul lavoro subordinato, quello che riguarda cioè l’agricoltura, il settore dove soprattutto al Sud è più ampio lo sfruttamento dei migranti irregolari, hanno continuato a restare invece molto bassi: riguardano solo il 13 per cento delle domande già perfezionate (14.360) e il 24 per cento di quelle in lavorazione (2.715). Le richieste di permesso di soggiorno temporaneo presentate agli sportelli postali direttamente dai cittadini stranieri, seguendo dunque il secondo canale, sono 5.733.
Va precisato inoltre che i dati pubblicati finora parlano di domande ricevute: non ci sono dati sulle domande andate effettivamente a buon fine e dunque sui permessi rilasciati.
E quindi?
Dai dati si ricava una prima evidente considerazione. La misura era nata perché, a causa dell’epidemia e del conseguente blocco delle frontiere, mancavano centinaia di migliaia di braccianti, con conseguenze potenzialmente pesanti per l’agricoltura. Solo in un secondo momento e dopo diverse pressioni erano stati compresi i settori del lavoro domestico e di cura. «Da oggi vince lo Stato perché è più forte della criminalità e del caporalato», aveva annunciato la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova, insistendo dunque su un provvedimento che avrebbe inciso soprattutto sul lavoro nero dei campi.
I numeri indicano però che «la procedura per l’emersione dei rapporti di lavoro» non sta riguardando il principale settore per cui era stata pensata. «La domanda di lavoro nei campi non può essere soddisfatta dalla sola regolarizzazione prevista per decreto; e a dimostrarlo è la bassissima percentuale di adesione nel settore agricolo», ha fatto sapere la Coldiretti.
Nonostante questo la ministra Bellanova qualche giorno fa è tornata a difendere il provvedimento, così come il viceministro dell’Interno Matteo Mauri che ha parlato di un «intervento necessario e doveroso». Associazioni, sindacati e movimenti stanno invece denunciando il fatto che, come avevano previsto, il provvedimento non stia funzionando: è molto parziale, restrittivo, poco chiaro in alcuni punti (sulla questione dei richiedenti asilo, ma ci torniamo) e ha innescato nuove forme di sfruttamento.
Cosa non va
Innanzitutto, la regolarizzazione stabilisce la possibilità di emersione dal lavoro nero solo in alcuni settori – tre – escludendo tutti gli altri: dall’edilizia al commercio, dalla logistica al turismo. Oltre alla restrizione dei settori, poi, è prevista anche una restrizione temporale, di data d’inizio dell’irregolarità. Stefano Bleggi, coordinatore del Progetto MeltingPot Europa e attivo nella campagna “Siamo qui. Sanatoria subito”, nata durante il lockdown, sostiene che il primo grande sbaglio sia la ratio del provvedimento: non si è scelta una regolarizzazione generalizzata «a partire dal diritto alla salute delle persone che senza un permesso non possono nemmeno avere un medico di base, cosa tanto più grave durante un’emergenza sanitaria», ma si è optato per un’emersione parziale «a partire dalle esigenze del mercato».
L’altro «grande sbaglio», dice, «è aver previsto una norma legata a determinati settori evidentemente insufficienti non solo perché altre persone semplicemente lavorano in altri settori, ma anche perché quando lavorano nei settori previsti lo fanno spesso con subappalti o con datori di lavoro che non sono propensi a intraprendere la procedura perché non è conveniente».
Il provvedimento dà infatti per scontato che un datore di lavoro sia intenzionato a regolarizzare o ad assumere uno straniero irregolare. Dal punto di vista economico, però, non è chiaro perché dovrebbe farlo. Continua infatti a essere molto più conveniente avere un dipendente in nero: ha scarsissimo potere contrattuale, non ha diritti sindacali, non è protetto dalle leggi sul lavoro e soprattutto permette di evadere i contributi al fisco. I datori di lavoro che impiegano le persone nei campi a tre euro l’ora, ai quali la norma sembrava innanzitutto rivolgersi, non hanno nessun incentivo a procedere con la regolarizzazione.
È anche per questo motivo che la maggior parte delle domande proviene dai settori del lavoro domestico e di cura. Una famiglia «non è un tipico datore di lavoro, che deve guadagnare», spiega Antonio Mumolo, Presidente dell’Associazione “Avvocato di strada”. «Le persone che si trovano in difficoltà con la gestione di una casa o di un anziano e che hanno una badante non sono datori di lavoro tipici, sono persone che hanno un bisogno. Inoltre, il contratto per questo tipo di prestazioni è molto particolare, è di fatto basato sulla fiducia, non comporta costi eccessivi a carico delle famiglie ed è molto flessibile. Ci sono quindi due debolezze che si uniscono, quella della necessità di avere un sostegno per la gestione della famiglia e quella di avere un permesso, con il conseguente grande interesse a procedere con la regolarizzazione. Insomma, c’era un’esigenza reale e c’è stata una risposta immediata. Nel settore agricolo invece non è così: alcuni datori di lavoro prendono gente senza permesso perché la sfruttano».
Per Bleggi, inoltre, «il numero delle domande è schiacciato solo sui lavoratori e le lavoratrici domestiche anche perché in molti casi si tratta di forme di assunzione “solidale”: questo è insomma l’unico modo per far avere un permesso di soggiorno».
Dipende tutto dai datori di lavoro?
Dai dati emerge poi che le richieste tramite il secondo canale, quello che prevede la richiesta diretta da parte della persona senza permesso, sono molto basse.
Bleggi spiega che la norma è molto sbilanciata sui datori di lavoro e troppo restrittiva per quanto riguarda le istanze dirette: «Il permesso di soggiorno ottenuto attraverso il secondo canale è di soli sei mesi, un periodo troppo breve, e inoltre dà la possibilità di trovare lavoro solamente in quei tre famosi settori. In alcune situazioni poi è molto difficile recuperare i documenti originali richiesti, ci sono ambasciate che funzionano e altre che non funzionano, o che non ci sono proprio in Italia. E il tempo è poco. Il secondo canale, insomma, è difficile, e prevede requisiti molto restrittivi: c’è un limite temporale e molte persone sono invece irregolari da anni; o devono aver lavorato regolarmente nei tre settori previsti e dimostrarlo».
«Il secondo canale», aggiunge Mumolo, «è residuale, riguarda persone che lavorano in quel settore e che hanno alcuni particolari requisiti. Il canale principale resta il primo: ma è davvero accettabile, e costituzionalmente lecito, che una persona che ha lavorato, seppur priva di documenti, debba delegare i suoi diritti, la sua possibilità di regolarizzarsi e, in una parola, il suo futuro, alla volontà di un datore di lavoro? Come nell’antica Roma solo il padrone poteva rendere la libertà allo schiavo, così oggi solo i datori di lavoro “possono” affrancare i nuovi schiavi».
Il problema per Mumolo sta proprio in quel “possono”, che è scritto nella norma e che ha probabilmente frenato molti datori di lavoro, dando la possibilità di “non poter fare”: «La norma dice che i datori di lavoro “possono”, e non “devono”, regolarizzare gli irregolari. Dunque, il datore di lavoro che impieghi lavoratori irregolari sembrerebbe semplicemente avere la facoltà, e non l’obbligo giuridico, di regolarizzarli. È tuttavia evidente che, un’interpretazione di questo tipo, non possa in alcun modo essere condivisa in quanto verrebbe a legittimare una situazione di fatto diametralmente opposta a quella perseguita dal legislatore».
La legge sulla regolarizzazione, insomma, permette implicitamente la possibilità – illegale, è il caso di ricordarlo – di tenersi i lavoratori irregolari. Cosa succede, dunque, se il datore di lavoro, non procede alla regolarizzazione del rapporto di lavoro come pare stia accadendo?
«In questo caso», dice Mumolo, «appare evidente che, seguendo la ratio della norma, i lavoratori assunti irregolarmente o “in nero”, potranno denunciare all’ispettorato del lavoro o direttamente al giudice del lavoro la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed ottenerne la regolarizzazione. Nella precedente regolarizzazione del 2002, con un governo di centrodestra, si arrivò alla stessa conclusione. Anche in quel decreto si stabiliva che il datore di lavoro “poteva”, ma dopo la presentazione di una serie di ricorsi andati a buon fine, il ministero dell’Interno emanò una circolare in cui si precisava, sostanzialmente, che quel “potere” andava interpretato come un “dovere”». È fondamentale, conclude Mumolo, «far sapere che ci sono degli strumenti che le persone possono utilizzare se i loro datori di lavoro si rifiutano di inoltrare l’istanza. In attesa di una circolare esplicativa da parte del ministero, la nostra associazione con i suoi legali presenti in 55 città italiane, assisterà giudizialmente le persone che i datori di lavoro si rifiutano di regolarizzare, pur avendo le stesse svolto attività lavorativa prima dell’8 marzo 2020».
C’è un altro punto del decreto che resta poco chiaro e che può aver influito sui numeri bassi delle richieste tramite secondo canale: ha a che fare con la situazione delle persone richiedenti asilo – il diritto alla protezione internazionale non dipende dalla regolarità o irregolarità delle condizioni di soggiorno – che «la conversione in legge non ha migliorato», dice Bleggi, e che «una serie successiva di circolari ministeriali ha ulteriormente complicato».
Per quanto riguarda il primo canale, il ministero dell’Interno ha confermato che tra la condizione di richiedente asilo e l’accesso al canale di emersione attivato dal datore di lavoro non c’è incompatibilità. La persona richiedente asilo assunta secondo le procedure previste dal primo canale del decreto potrà, dunque, continuare a procedere con la richiesta di protezione senza dovervi rinunciare.
Per quanto riguarda invece il secondo canale di emersione, quello attivato dal cittadino straniero per la richiesta del permesso di soggiorno temporaneo, «la circolare del 19 giugno dà invece un’interpretazione restrittiva della norma stessa facendo intendere che l’iniziativa per regolarizzare la posizione di soggiorno attraverso percorsi differenti rispetto a quello della protezione internazionale possa togliere a quest’ultima legittimità o che vi si debba addirittura rinunciare. Sembrerebbe cioè» spiega Bleggi «che se un richiedente asilo vuole accedere al secondo canale di emersione debba rinunciare alla richiesta di asilo. E diverse questure, basandosi sulla circolare diramata, stanno già valutando come automaticamente inammissibili le richieste di regolarizzazione provenienti da richiedenti asilo».
Nuovi sfruttamenti
Venerdì 10 luglio, commentando il secondo report sui dati della procedura di emersione dei rapporti di lavoro, il viceministro dell’Interno Matteo Mauri ha parlato del ruolo fondamentale «delle realtà che operano in prima fila nei settori coinvolti» nel «prevenire le truffe e i tentativi di sfruttamento da parte di soggetti che chiedono denaro in cambio della regolarizzazione».
Movimenti e organizzazioni stanno infatti denunciando come dopo l’entrata in vigore del decreto si sia creato un meccanismo criminoso per cui ci sono datori di lavoro che non solo pretendono dai migranti di essere rimborsati dei 500 euro necessari alla pratica, ma che chiedono anche migliaia di euro per avviarla.
Ludovica Di Paolo Antonio, avvocata volontaria dell’associazione Baobab Experience, ha raccontato che questo ricatto coinvolge soprattutto «uomini e giovani, la maggioranza delle persone in situazione di irregolarità, che hanno possibilità limitate come colf o badanti»; persone che «lavorano in settori come quello dell’edilizia esclusi dalla regolarizzazione parziale» o in settori come quello dell’agricoltura nel quale «è evidente la generale indisponibilità a regolarizzare se non dietro pagamento di somme altissime, che non sono solo quelle previste dalla procedura che i datori di lavoro spesso chiedono di farsi rimborsare: ci è stato riferito che vengono chiesti tra i 5 e i 7 mila euro per avviare la procedura».
Anche per Ludovica Di Paolo Antonio «il meccanismo di funzionamento della norma è sbagliato, perché tutto viene lasciato alla responsabilità, alla volontà e alla correttezza del datore di lavoro. E invece i caporali o non la fanno, la regolarizzazione, o se la fanno se la fanno pagare carissima. Con la conseguenza che chi doveva essere punito ha un altro e nuovo strumento di guadagno e che le vittime continuano a restare vittime. E stiamo parlando di una norma che è proprio nata contro il caporalato, mentre il caporalato non ne è stato minimamente colpito o disturbato. La regolarizzazione doveva essere accompagnata da ispezioni, controlli, da un’interruzione anche forzata delle attività criminose».
Molti braccianti che negli ultimi mesi non hanno potuto lavorare, e che si sono ritrovati quindi senza soldi, sono poi stati costretti a chiedere soldi in prestito per regolarizzarsi o ad accettarli dagli usurai. Mimma D’Amico, attivista dell’Ex Canapificio di Caserta, ha spiegato in una recente intervista al Manifesto che dopo l’approvazione del decreto «sono arrivati gli usurai a offrire i soldi a strozzo ai migranti per comprare contratti falsi per provare a ottenere un permesso che li regolarizza per soli sei mesi. Un orrore che rischia di spingerli in una spirale di sfruttamento ancora maggiore. Stiamo dicendo a tutti di non accettare ma la risposta che ci danno è “siamo disperati”».