I più giovani diffondono il coronavirus quanto gli adulti
Secondo una ricerca su larga scala, chi ha tra i 10 e i 19 anni è contagioso come gli adulti: potrebbe essere un problema per la scuola
Una nuova ricerca scientifica sulla diffusione del coronavirus, condotta su larga scala in Corea del Sud, ha rilevato che gli adolescenti e i ragazzini tra i 10 e i 19 anni sono contagiosi quanto gli adulti, mentre lo sono un po’ meno i bambini al di sotto dei 10 anni. Lo studio, che ha ricevuto numerosi commenti positivi per la rigorosità con cui è stato condotto, fornisce nuovi importanti elementi sulla pandemia e dati che potrebbero rivelarsi utili nella decisione delle politiche per la riapertura delle scuole.
In molti paesi, come l’Italia, l’anno scolastico si è concluso senza che gli studenti potessero tornare nelle classi, per ridurre il rischio di un ulteriore aumento dei contagi in ambienti e circostanze dove è molto difficile praticare il distanziamento sociale, soprattutto nei livelli di istruzione più bassi. In Europa molti governi hanno elaborato piani e iniziative per riaprire le scuole in sicurezza alla fine dell’estate, ma ci sono forti dubbi sulla possibilità di tornare a tenere normalmente le lezioni. In Italia il governo ha ricevuto forti critiche per le lentezze e le esitazioni con cui ha gestito il tema della scuola, producendo infine un piano giudicato carente per l’anno scolastico che inizierà a settembre.
Lo studio realizzato in Corea del Sud, uno dei paesi più interessati dalla pandemia nei primi mesi dell’anno, ha portato all’identificazione di 5.796 persone che avevano segnalato di avere sintomi compatibili con la COVID-19 durante la loro permanenza a casa, tra la fine di gennaio e la fine di marzo, quando le scuole nel paese erano chiuse. I ricercatori hanno ricostruito i contatti di ogni individuo, censendo oltre 59mila persone.
Il gruppo di ricerca ha sottoposto ai test con il tampone i conviventi, anche asintomatici, di ciascuno dei 5.796 individui con una sospetta COVID-19. Per i contatti all’esterno dei nuclei familiari, invece, i ricercatori hanno effettuato i test solamente sugli individui che mostravano sintomi da fare sospettare un avvenuto contagio da coronavirus.
Mettendo insieme i dati, e tenendo in considerazione alcune inevitabili limitazioni nella loro analisi, gli autori hanno rilevato che i bambini sotto i 10 anni avevano il 50 per cento di probabilità in meno di trasmettere il coronavirus rispetto agli adulti. Le cause di questa differenza non sono ancora chiare, ma un’ipotesi è che i bambini emettano meno aria a ogni respiro, e diffondano quindi una minore quantità di particelle virale rispetto a un adulto. Sulla minore diffusione potrebbe anche influire l’altezza, e quindi l’emissione di aria più vicina al suolo con un minor rischio di essere inspirata dagli adulti, dicono i ricercatori.
Nel caso dei ragazzini e degli adolescenti tra i 10 e i 19 anni non sono state invece rilevate differenze significative nel rischio di diffusione del coronavirus, rispetto agli adulti. Dando seguito alle ipotesi sui bambini più piccoli, gli autori hanno teorizzato che nella fascia di età 10-19 la quantità di aria esalata e la maggiore altezza degli individui possano essere fattori che fanno aumentare il rischio di contagio.
Nel loro studio, gli autori ricordano che non è detto che la prima persona a segnalare sintomi da sospetta COVID-19 in un nucleo familiare sia anche il primo individuo a essere stato infettato nella stessa famiglia. Spesso i bambini non sviluppano alcun sintomo dovuto al coronavirus, e questo potrebbe avere condizionato in parte i risultati dell’analisi e la ricostruzione di alcune catene del contagio. A oggi non è comunque chiaro se e quanto siano contagiosi i bambini senza sintomi, un tema ampiamente dibattuto non solo nella comunità scientifica, ma anche tra governi e istituzioni in vista della riapertura delle scuole.
Il risultato dello studio sulla contagiosità di chi ha tra i 10 e i 19 anni paragonabile a quella degli adulti pone diversi interrogativi, soprattutto per il ritorno a scuola di chi frequenta le medie e le superiori. Con gli studenti più adulti potrebbe essere più semplice diffondere il concetto di distanziamento fisico e di impiego della mascherina, ma si presenterebbero comunque numerose situazioni durante l’attività didattica nelle quali sarebbe difficile mantenere le distanze.
La maggior parte degli esperti concorda sul fatto che la riapertura delle scuole implichi un maggior rischio di nuovi contagi, con la possibilità di un aumento dei casi rilevati in diversi paesi. L’adozione di misure per rendere meno frequenti i contatti nelle scuole potrebbe contribuire a ridurre il rischio, anche se in molti ritengono che sarà soprattutto importante riuscire a identificare da subito i nuovi focolai, quando sono ancora piccoli e possono essere facilmente contenuti.
Un approccio simile è stato seguito nei mesi scorsi in Danimarca e Finlandia, tra i primi paesi europei ad avere riaperto gli edifici scolastici con lezioni in presenza. Le scuole si sono organizzate per tenere sotto controllo studenti e insegnanti, con verifiche della temperatura e richiedendo test con i tamponi dove necessario. In alcune isolate circostanze si è resa necessaria la chiusura di una scuola, ma senza che questo determinasse interventi più restrittivi a livello nazionale.
La ricerca sudcoreana è stata accolta molto positivamente, soprattutto per la quantità di dati raccolti e sulle quali sono state poi basate analisi e statistiche sulla diffusione del contagio. Il nuovo studio non offre risposte definitive, ma indica chiaramente che la riapertura delle scuole possa incidere sensibilmente sulla presenza del coronavirus nella comunità. Nei prossimi mesi, le istituzioni dovranno quindi riuscire a trovare il giusto equilibrio tra la necessità di garantire l’istruzione e l’attività didattica per milioni di studenti, mantenendo comunque il livello di rischio entro limiti accettabili.