Passato e futuro del vino in cartone
Dal Tavernello, nato nel 1983, ai vini di buona qualità del Nord Europa, passando per l'aumento di vendite durante il lockdown
Durante il lockdown, gli italiani hanno praticamente esaurito il lievito nei supermercati, hanno comprato il 76 per cento di camomilla in più rispetto all’anno precedente e hanno acquistato molto più vino, soprattutto sui siti specializzati online. Uno dei siti più frequentati è stato per esempio quello di Tannico, probabilmente il più importante e fornito, dove nelle ultime tre settimane di marzo gli acquisti sono aumentati del 100 per cento.
Anche nella cosiddetta grande distribuzione (la GDO, cioè i grandi negozi al dettaglio, dai 200 metri quadri in su) le vendite di vino sono aumentate: del 7,9 per cento in volume e del 6,9 per cento in valore, secondo dati di Vinitaly e della società di analisi di mercato Iri calcolati dal primo gennaio al 19 aprile. Questa percentuale tiene conto della crescita, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, dell’8,8 per cento delle vendite di vino in cartone e del 36,8 per cento di quelle dei Bag in Box, un nuovo tipo di formato in cartone che permette di conservare meglio il vino.
Non si sa esattamente perché il vino in cartone sia andato così bene, se sia stato usato più a tavola, come aperitivo da solo o per tagliare i cocktail.
Benedetto Marescotti, marketing manager di Caviro, la più grande cooperativa vinicola italiana che ha creato il Tavernello, il più famoso vino in cartone italiano, ha spiegato al Post che «durante il coronavirus si viveva in casa e si consumava vino solo lì. Si faceva l’aperitivo in via telematica, magari si beveva un bicchiere in più tanto si restava a casa, un po’ lo si usava per cucinare». Ha anche aggiunto che nelle settimane centrali del lockdown, le vendite di vino in brick sono aumentate del 15-20 per cento, mentre sono diminuite sempre del 15-20 per cento quelle di spumante.
In Italia c’è uno stereotipo negativo sul vino in cartone, che è associato al vino industriale, di poco prezzo e di scarsa qualità. Il vino in cartone sta però vivendo un momento di snodo: da un lato è quel che resta della centenaria abitudine di consumare vino da tavola, dall’altro i produttori stanno cercando di presentare il cartone come un contenitore adatto anche ai vini di buona qualità.
Il vino in cartone è l’erede di un mondo in cui il vino si beveva in modo completamente diverso da oggi. Marescotti ha raccontato al Post che in Italia, negli anni del Dopoguerra, si bevevano circa 120 litri a testa all’anno, cioè circa un terzo di litro di vino al giorno; nel 2000 erano circa 55 litri, oggi siamo a poco più di 30-33 litri. Nel mezzo c’è stata la trasformazione della società italiana, che è passata dall’essere rurale a cittadina, dal trascorrere sonnolente pause pranzo a casa a consumare rapidi bocconi in ufficio, ad avere poche alternative al vino, come la birra e la Coca-Cola, alle tante proposte di oggi.
In Italia il vino in cartone nacque negli anni Ottanta. A quei tempi il vino si comprava sfuso nelle cantine, in damigiane che poi si imbottigliavano a casa, oppure nei piccoli supermercati e alimentari, dove veniva versato in bottiglioni da 1,5/2 litri chiusi con un tappo a corona, come quello della birra. Il vetro era a rendere, si portava a casa la bottiglia lasciando una caparra al negozio. Molti italiani tornavano a casa per pranzo e anche in quel pasto, oltre che a cena, «un bicchiere di vino a tavola non mancava mai», ricorda Marescotti. Era un vino leggero ed economico, adatto al consumo quotidiano a casa, come quello delle cantine sociali romagnole di Caviro.
In quegli anni l’azienda svedese Tetra Pak, fondata nel 1951 da Ruben Rausing, stava cercando di espandersi e di trovare nuovi prodotti da conservare nei suoi cartoni rivestiti di plastica che non facevano entrare l’aria.
Inizialmente i cartoni venivano impiegati per la conservazione di latte e panna, e dopo di succhi, conserve, marmellate; poi Tetra Pak decise di provare anche con il vino.
«Contattarono Caviro – racconta sempre Marescotti – e fecero degli esperimenti con l’università di Bologna per trovare la formula adatta a contenere il vino, più corrosivo del latte. Così arrivarono a produrre il primo brik di Tetra Pak a forma di mattonella, che si tagliava con le forbici». Nell’aprile del 1983 Caviro fondò un nuovo marchio di vino in Tetra Pak e lo chiamò Tavernello: nel primo anno, dice Marescotti, vendette 5 milioni di confezioni da un litro. Dentro c’era lo stesso vino che si andava a comprare in campagna, quello che si beveva a tavola.
Poi Caviro iniziò a fare la pubblicità di Tavernello usando le tv. «Il mondo del vino parla poco al grande pubblico – dice Marescotti – si rivolge spesso in modo molto autoreferenziale agli addetti al settore. La comunicazione di Tavernello era invece semplice, spensierata, rivolta a un pubblico moderno, e la pubblicità era fatta sulle tv private, quelle che poi sarebbero diventate il network di Mediaset».
Come la sua pubblicità, Tavernello era un prodotto moderno e innovativo: lo stesso vino che si trovava nelle scomode damigiane comprate in campagna o nelle pesanti bottiglie a rendere, era venduto in un contenitore leggero, facile da trasportare e da conservare in armadio o in frigorifero. Inoltre un brik costava quasi la metà di una bottiglia di vetro, e questo consentiva, a parità di prodotto, di farlo pagare meno.
Negli anni le vendite di vino si sono spostate nei supermercati. Oggi il prodotto principale sono le bottiglie di vetro da 750 ml, che coprono il 50 per cento del mercato, con un totale di circa 17mila proposte. Sono l’unico formato in crescita a parte il cartone, che vale il 30 per cento del mercato. Il cartone conta circa 200 prodotti, tra cui quelli di Tavernello, che è il vino in cartone più venduto e rappresenta da solo il 30 per cento delle vendite, seguito dalle marche private, come quelle a marchio Coop o Conad. Il restante 20 per cento è rappresentato da Bag in Box, per circa il 3-4 per cento, e dai formati di grandi dimensioni, che sono sempre più in crisi.
Oggi Tavernello lavora con 29 cantine di 8 regioni diverse. Mescolando i loro vini ottiene il vino d’Italia dei suoi brik, che è quindi un blend, cioè una composizione, di vini di diverse regioni. Negli ultimi anni Tavernello ha anche messo in vendita vini di maggiore qualità come il Pinot bianco Famoso e il Sangiovese Merlot della sezione Gold, vini biologici e senza conservanti, tutti in brik, e una collezione di vini frizzanti necessariamente in bottiglia, visto che il Tetra Pak non può conservare vini pressurizzati.
Anche Tavernello, infine, sta investendo nel Bag in Box, una scatola di cartone con all’interno una sacca in materiale plastico che conserva il vino e che termina con un rubinetto richiudibile. Rispetto al Tetra Pak è più vantaggioso perché il rubinetto impedisce l’entrata dell’aria, contrariamente al tappo del Tetra Pak, e consente di conservare il vino a lungo. Viene venduto in formati grandi, da 2,5 fino a 5 litri, ed è ideale per un consumo piccolo ma prolungato nel tempo. È un contenitore sempre più usato nel Nord Europa e sta prendendo lentamente piede anche in Italia per i vini di buona qualità.
«L’industria del vino è molto ricettiva nell’innovazione del prodotto ma non in quella del packaging», ha spiegato al Post Jacopo Cossater, giornalista e senior editor del sito Intravino. «Si fa una fatica enorme ad andare oltre alla bottiglia di vetro con il tappo in sughero, contrariamente a quanto succede in altri paesi», aggiunge.
Secondo Cossater, per il vino in cartone è in corso un cambiamento simile a quello avvenuto per la birra in lattina qualche anno fa, quando passò dall’essere considerata sinonimo di birra industriale a venire utilizzata per quelle artigianali. «Il vetro è poco pratico: è pesante, costoso, è difficile da trasportare, rischia di rompersi, non è così facile da gestire in termini di magazzini e di spazio. Il Tetra Pak è straordinariamente migliore sotto tutti questi punti di vista ed è anche un ottimo contenitore perché protegge il vino dalla luce, uno degli elementi che, insieme agli sbalzi di temperatura, può rovinarlo».
Cossater spiega che la preminenza dei vini in bottiglia dipende dalla resistenza e dalla diffidenza di chi compra il vino, e di conseguenza di chi lo produce perché non vuole associare la sua etichetta al vino industriale. Le difficoltà sono simili a quelle incontrate per i tappi a vite, «che sono associati ai bottiglioni del supermercato ma che per alcuni vini sono molto adeguati oltre che comodi per alcune situazioni: pensa a quanto è più veloce per un bar anziché usare ogni volta il cavatappi».
Il cartone è un’alternativa pensata solo per i vini di consumo quotidiano e non se ne parla ancora per quelli di maggior pregio: «Al momento non abbiamo alcuna esperienza su cosa succederebbe a un vino di qualità conservato nel Bag in Box, che io sappia nessuno ha mai messo del Barolo in un brick e l’ha aperto dopo 10 anni».