Manhattan senza auto è possibile?
E le altre città? Non sarebbe ora? Un opinionista del New York Times ha preso il toro per le corna
Le restrizioni dovute al coronavirus hanno mostrato cosa possono diventare le città senza traffico. Ora che le restrizioni sono state allentate in molti paesi del mondo, i principali scenari possibili sembrano essere due: nel primo scenario tutto torna com’era prima, magari con ancora più persone che preferiranno l’auto privata a qualsiasi altra forma di trasporto; nel secondo avremo città diverse, con meno spazio riservato alle auto.
Di questo secondo scenario ha parlato Farhad Manjoo, opinionista del New York Times, nell’articolo intitolato “Ho visto un futuro senza auto ed è magnifico“, risultato di una collaborazione tra lo stesso New York Times e lo studio di architettura PAU (acronimo di Practice for Architecture and Urbanism), fondato e diretto da Vishaan Chakrabarti.
Lo scenario elaborato riguarda il futuro di Manhattan, dove hanno sede sia il New York Times sia lo studio PAU. Con i suoi quasi due milioni di abitanti sparsi su poco più di 59 chilometri quadrati, Manhattan è certamente un luogo affollato. Non è però un luogo in cui l’auto privata sia davvero indispensabile: dai celebri taxi gialli all’attempata ma relativamente efficiente metropolitana, le alternative esistono e sono molto usate.
Inoltre, da diversi anni i governi locali di New York – in particolare quella di Michael Bloomberg e della sua apprezzata consulente ai trasporti Janette Sadik-Khan – hanno fatto importanti passi verso la pedonalizzazione di alcune parti della città (per esempio di Times Square) e la creazione di centinaia di chilometri di nuove piste ciclabili. Più della metà dei newyorkesi (quindi anche chi vive fuori Manhattan) non possiede un’auto e Manjoo scrive che «dei circa 1,6 milioni di lavoratori che andavano a Manhattan prima della pandemia, più dell’80 per cento lo faceva usando il trasporto pubblico e solo il 12 per cento usando l’auto».
Eppure a Manhattan le auto private sono lo stesso un grande problema, per il traffico che creano, per l’inquinamento e ancora di più per lo spazio che occupano, in un luogo in cui lo spazio è un bene particolarmente limitato e notevolmente caro. Il 12 per cento può sembrare poco, però il 12 per cento di 1,6 milioni fa quasi 200mila persone che vanno al lavoro in auto.
Manjoo scrive che a Manhattan le aree destinate alle auto occupano quasi quattro volte la superficie di Central Park, il grandissimo parco cittadino, e che anche solo contando parcheggi, pompe di benzina, autolavaggi e altri luoghi destinati principalmente alle auto si arriva a una superficie pari a quella di Central Park.
Why do American cities waste so much space on cars? @fmanjoo considers what the future could look like without them. https://t.co/452wj1eQMx pic.twitter.com/ZmeEUjM1tI
— New York Times Opinion (@nytopinion) July 9, 2020
A Manhattan – che, di nuovo, non è certo il posto più congestionato al mondo – lo spazio per le auto è più di quello per i pedoni. «In gran parte di Manhattan», scrive Manjoo, «la velocità media di un’automobile prima della pandemia era di 12 chilometri all’ora; a Midtown [il suo centro] era di 8; appena poco più veloce di qualcuno che cammina, e comunque più lento di una bicicletta».
Per poter immaginare un futuro senza auto per Manhattan, Chakrabarti ha proposto un progetto che prevede il divieto di accesso all’isola a tutti i veicoli privati, lasciando ovviamente possibilità di movimento a furgoncini delle consegne e veicoli di polizia, ambulanza e vigili del fuoco, ma anche a taxi, Uber e auto dei servizi di sharing.
Si potrebbero quindi ridurre le corsie dedicate alle auto, guadagnando spazi che potrebbero essere usati per le “autostrade delle biciclette” e per una serie di linee di “bus a transito rapido“, che non dovendosi destreggiare tra code, semafori, incroci e auto in doppia fila potrebbero andare speditamente lungo corsie preferenziali avvicinandosi «alla velocità, alla capienza e all’efficienza della metropolitana», con costi però notevolmente minori.
Togliere auto vorrebbe anche dire togliere parcheggi, liberando spazio per qualsiasi altra cosa potrebbe servire. A cominciare, per esempio, da moderni e adeguati luoghi per la raccolta dei rifiuti: un altro grande problema delle grandi città, in parte legato al poco spazio disponibile lungo le strade.
Come scrive Manjoo, è probabilmente superfluo dilungarsi sui motivi per cui le auto sono «sporche, pericolose, costose da mantenere e pericolose per l’ambiente». O anche citare dati su quante morti causano, tra gli automobilisti ma anche tra i ciclisti e i pedoni.
Manjoo stesso non si chiama nemmeno fuori dalla fascinazione per le automobili: «So quel che dico perché anche a me piacciono moltissimo. Mi piacciono nel profondo, tanto quanto un cane ama un osso o un utente di Instagram un tramonto». Manjoo si dice anche particolarmente fiero della sua Volkswagen Golf R, ma è anche consapevole di vivere in un posto in cui spesso, per il traffico, non va più veloce di quanto andrebbe una macchinetta elettrica da golf.
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Da giornalista esperto di tecnologia, Manjoo scrive che un tempo aveva «grandi aspettative nei confronti di auto più pulite, sicure ed efficienti» ma che, fatta forse eccezione per Tesla, non sembrano esserci grandi svolte all’orizzonte. Anche perché aziende come Uber o Lyft, che «promettevano di ridurre il traffico, in molte grandi città l’hanno invece fatto aumentare». Manjoo parla quindi della necessità di liberarsi dalla dipendenza da qualsiasi tipo di auto, perché anche quelle elettriche «non sono una panacea ambientale».
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Citando una frase spesso attribuita a Henry Ford – «Se avessi chiesto ai consumatori cosa volevano, mi avrebbero detto di volere un cavallo più veloce» – Manjoo sostiene che «Uber e Tesla sono solo cavalli più veloci» rispetto a quello che nel Novecento sono state le auto, e che l’unica vera svolta utile sia togliere spazio alle auto, qualsiasi tipo di auto. Se improvvisamente, da domani, tutte le auto di Manhattan diventassero elettriche migliorerebbe di certo l’aria di Manhattan, ma non cambierebbero il traffico e non sarebbero risolti i problemi di spazio.
A proposito di spazio, Chakrabarti è noto per aver parlato spesso del concetto di «equità stradale». È molto semplice e prevede di pensare ai metri quadrati che servono per far spostare 50 persone in autobus, a piedi, in macchina o in bicicletta.
Street Equity for 50 People.@TransAlt @NYC_DOT
We need more streets like #14thstreet pic.twitter.com/QjkOw96Zhi
— Vishaan Chakrabarti (@vishaannyc) October 6, 2019
Chi ha l’auto a Manhattan è una minoranza, ma occupa la maggior parte della strada. Non si parla solo di un’eccessiva occupazione di spazio, ma anche di una notevole disparità tra pochi che occupano tanto spazio e tanti altri che ne occupano poco. È un problema di “domanda indotta”, un circolo vizioso in cui più auto ci sono e più si creano spazi per le auto, e più aumentano quindi le auto.
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Nel caso di Manhattan, Chakrabarti e Manjoo sostengono che eliminare le auto private dall’isola diminuirebbe fino al 20 per cento anche il traffico nelle aree circostanti, in cui le auto continuerebbero a poter circolare. Seppur i due non ne parlino, progetti di questo tipo devono anche tenere conto di come e dove mettere tutte le auto di chi, incentivato da minor traffico, sceglierebbe di arrivare in macchina fino a fuori Manhattan, parcheggiandola prima di entrare in città.
Non è ovviamente l’unica criticità di un piano di questo tipo. Bisognerebbe anche considerare un lungo periodo di transizione (e lavori in corso) tra lo stop alla circolazione delle auto e l’arrivo di nuove piste ciclabili, marciapiedi allargati e corsie per i bus a transito rapido. Manjoo scrive che «gli autobus sono lenti e le biciclette pericolose» solo perché «li immaginiamo così nel mondo delle auto»; ma, per forza di cose, se un progetto come quello di PAU dovesse diventare realtà andrebbe messo in conto, almeno per qualche tempo, la coesistenza delle automobili con biciclette non ancora sicurissime e autobus non ancora velocissimi.
Tra l’altro, anche togliendo tutte le auto private, il traffico non sparirebbe: secondo PAU, si ridurrebbe del 60 per cento.
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Nonostante le difficoltà, ci sono comunque pochi argomenti per sostenere che la direzione da seguire non sia quella proposta da PAU. Più che decidere in che direzione muoversi – diverse città lo stanno facendo più che in passato – in molti casi è anche una questione di comunicazione di quel che si vuole fare. Secondo Manjoo, «ogni proposta di abolizione delle automobili deve apparire meravigliosa» e contrastare la dipendenza dall’auto, più che le auto in sé.
Di nuovo, partire da Manhattan, un luogo arcinoto in cui già per molti l’auto non è indispensabile, potrebbe essere un po’ più facile che altrove:
«Chakrabarti si rende conto dei rischi politici di chi prova a bandire le auto private. Però Manhattan è un posto speciale. Con una popolazione quasi già abituata a non guidare, l’isola è forse l’unico posto degli Stati Uniti dove una cosa del genere può anche solo essere presa in considerazione. Manhattan potrebbe diventare un luogo da cui testimoniare come la rinuncia alle auto di un’intera area urbana potrebbe rendere migliore la vita di molti».