Attenti, col solletico
Se gestito nel modo sbagliato può diventare fastidioso e doloroso, dicono gli esperti: anche quando i bambini ridono
Secondo Christine Harris, ricercatrice e docente di psicologia all’Università della California, il solletico è «uno dei fenomeni più misteriosi che esistano». Harris sa di cosa parla: ha pubblicato sei studi di ricerca sul solletico, ed è una degli esperti citati dalla giornalista scientifica Jenny Marder in un articolo “contro il solletico” uscito qualche giorno fa sul New York Times. Perché ci sono tante persone adulte, si è chiesta Marder, che ricordano con disagio il solletico subìto da bambini? Può essere che il solletico non sia sempre e per tutti così divertente come sembra?
Già migliaia di anni fa, Platone attribuì a Socrate l’affermazione che il solletico porta più dolore che piacere, e oggi esistono diversi studi che dimostrano e spiegano questa sensazione. Naturalmente non è sempre così: alcuni bambini sono genuinamente contenti di farsi solleticare, soprattutto entro certi limiti, e sono i primi a cercare questo momento di contatto giocoso con gli adulti. Il problema è che per sapere quando è il caso di fermarsi non basta affidarsi alle loro espressioni: durante il solletico la risata è solo un riflesso nervoso, e può nascondere anche un forte disagio.
Lawrence Cohen, ricercatore e autore del libro Playful parenting, ha detto a Marder che il solletico può sopraffare il sistema nervoso e far sentire i bambini indifesi e senza controllo. La risata durante il solletico è un riflesso e non ha nulla a che fare con lo stato d’animo della persona. In alcuni casi il solletico può portare fastidio e perfino dolore, ma quando un bambino dice «basta» tra le risate, spesso non viene preso sul serio. Il peggior solletico, secondo Cohen, è quello fatto con forza e in modo continuativo, perché rischia di mettere il bambino nella situazione di non riuscire a respirare.
Non a caso, in passato il solletico è stato spesso usato come forma di tortura. Veniva praticato in Cina per torturare le persone nobili ― perché diversamente dalle altre torture non lasciava tracce ― e nell’antica Roma: i prigionieri dovevano mettere i piedi a bagno in una soluzione di acqua e sale e poi le piante dei piedi venivano fatte leccare a una capra. Nel libro The Men With The Pink Triangle, Heinz Heger racconta la sua esperienza da persona omosessuale in un campo di sterminio nazista e dice che il solletico fatto con una piuma era una delle forme tortura usata dalle guardie sui prigionieri.
Secondo Christine Harris ci sono due grandi stranezze nel solletico: la prima è che non è possibile farselo da soli (o meglio, si può: ma con un effetto molto ridotto), la seconda è l’enorme divario tra il comportamento e lo stato d’animo di chi lo subisce. «Nonostante la loro faccia sembri divertita, se dicono che non gli piace, probabilmente è perché non gli piace», ha detto Harris al New York Times. «Se li vedi tenere le braccia strette al corpo o cercare di allontanarti, significa che c’è qualcosa che non va».
A volte quella che compare sul volto di un bambino durante il solletico non è un risata ma una smorfia. Alan Fridlund, ricercatore dell’Università della California ed esperto di espressioni facciali e comunicazione non verbale, ha spiegato che la risata da solletico può essere un riflesso spasmodico usato dall’organismo per rilasciare tensione. In casi estremi il solletico può portare a una perdita del controllo dei muscoli chiamata cataplessia, o a una paralisi temporanea. «Paralisi» è la stessa parola usata da Caitlin Crawshaw, una scrittrice intervistata da Marder, nel rievocare le sensazioni provate durante un episodio di solletico particolarmente doloroso fatto dai suoi due fratelli quando aveva 8 anni.
Secondo Fridlund, non c’è motivo di abolire completamente il solletico: se si fa con attenzione può essere un bel momento di gioco tra genitori e figli. Emma Kate Tsai, insegnante, ha raccontato a Marder che il solletico è un momento di gioco molto apprezzato dal figlio, che ha una forma di autismo che lo porta a usare quasi solo forme di comunicazione non verbali. Caitlin Crawshaw ha raccontato di usare il solletico per insegnare alla propria figlia di sette anni che il suo corpo è solo suo e per introdurre i concetti di limite e consensualità.
Perché sia appropriato, però, il solletico deve essere «breve, delicato, scherzoso e consensuale, con pause e controlli frequenti dello stato d’animo del bambino». In un famoso studio pubblicato nel 1897 intitolato La psicologia del solletico, della risata e del ridicolo, gli autori G. Stanley Hall e Arthur Allin avevano diviso il solletico in due categorie: quello fatto con forza, con le dita nelle costole o sui fianchi che portava a una risata chiamata da loro gargalesis, e quello più leggero che chiamarono knismesis.
Patty Wipfler, che ha fondato l’associazione non profit per la genitorialità “Hand in hand parenting” e ha parlato di solletico con molti genitori, mette in guardia su un altro aspetto della questione, ancora più sottile: e cioè che non basta che un bambino si mostri ben disposto verso il solletico per essere sicuri che vada tutto bene. «È possibile che la voglia di nostro figlio di vedere lo sguardo felice dei suoi genitori e lo sforzo di far durare questo momento di connessione sia così grande che si ritrovi in una situazione di tira e molla senza che ce ne rendiamo conto», ha spiegato Wipfler.
La giornalista Ashley Austrew ha raccontato a Marder che da bambina il padre le faceva il solletico così forte che lei si sentiva come paralizzata: da un lato era convinta che fosse un momento felice e che si stessero divertendo, dall’altro ne era terrorizzata. Più di una volta le era capitato di rotolare giù dal divano e rischiare di farsi male battendo la testa. «Non mi piaceva, ma subivo la pressione di dover farmelo piacere», dice Austrew, «e questo mi metteva in una strana posizione. Sembrava che ci fosse un contratto sociale non detto per cui gli adulti dovevano fare il solletico ai bambini per farli ridere e i bambini dovevano essere contenti di farsi solleticare».
In generale non si può sempre fare affidamento sul fatto che i bambini esprimano le proprie emozioni, soprattutto su una cosa come il solletico che è universalmente riconosciuta come divertente e non problematica. Sempre secondo Wipfler, abbandonare del tutto la tradizione del solletico non sarebbe una grande perdita. Ai genitori che non vorrebbero rinunciare al solletico, Cohen suggerisce alcuni giochi di interazione fisica meno rischiosi, per esempio la lotta coi cuscini o “il gioco della calza”, un gioco a cui si può giocare in due o più persone e il cui scopo è togliere i calzini agli altri senza farsi sfilare i propri, stando tutti seduti per terra.