Arriverà una “seconda ondata”?
Da mesi si parla del rischio di un nuovo aumento dei contagi da coronavirus alla fine dell'estate, ma ne sappiamo ancora poco e gli esperti invitano a non parlare di "ondate"
In più occasioni negli ultimi mesi si è parlato di una “seconda ondata” della pandemia da coronavirus, che sarebbe dovuta avvenire in seguito all’attenuazione delle restrizioni per rallentare il contagio o si potrebbe verificare con la fine dell’estate e l’arrivo della stagione fredda. Il confronto tra gli esperti su una ripresa significativa dei contagi è avvenuto soprattutto in Europa, dove in quasi tutti i paesi si sta assistendo a un aumento più contenuto dei nuovi casi positivi rispetto ai periodi di emergenza sanitaria di fine inverno e inizio primavera, ma con preoccupazioni per quanto potrebbe avvenire con il ritorno del freddo.
Le ipotesi circolate in questi mesi sono molte e basate sia sugli attuali andamenti dell’epidemia sia su come andarono le cose in passato con altre epidemie su grande scala, ma a oggi non ci sono comunque elementi certi per sostenere che in autunno avremo una “seconda ondata”, o che questa possa rivelarsi ancora più grave di quanto hanno sperimentato numerosi paesi dall’inizio dell’anno. Se poi il caldo fosse di per sé decisivo nel determinare l’andamento dell’epidemia, non si spiegherebbe quello che sta accadendo negli Stati Uniti (e soprattutto negli stati più caldi, come Texas, Arizona, Florida e California).
Come spiegano ormai da mesi numerosi esperti, questa incertezza non implica comunque che non ci si debba preparare per gli scenari peggiori, lavorando per potenziare i sistemi sanitari e attuando le buone pratiche per ridurre la diffusione del contagio (distanziamento fisico, uso delle mascherine dove necessario, lavarsi spesso e bene le mani, auto-isolamento nel caso di sintomi sospetti e tracciamento dei contatti).
Ondate?
L’uso stesso del termine “seconda ondata” può essere fuorviante, dicono gli epidemiologi: trasmette l’idea che l’emergenza sia stata ormai superata, e questo potrebbe indurre molti a sottovalutare nuovamente i rischi del contagio, facendo meno attenzione alle buone pratiche di cui parlavamo poco fa. In Italia, per esempio, negli ultimi giorni si sono registrati nuovi focolai e incrementi con più di 200 nuovi casi positivi giornalieri, a indicazione di quanto il coronavirus sia ancora presente tra la popolazione e continui a diffondersi, seppure a un ritmo più contenuto rispetto a qualche mese fa. L’epidemia non si è quindi mai fermata, e con le attuali conoscenze non è possibile sostenere che sia finita un’ondata o che ne stia per iniziare un’altra appena terminata l’estate.
Questa circostanza è stata chiarita di recente dal presidente del Consiglio superiore di sanità, Franco Locatelli, in un’intervista pubblicata su Repubblica:
Non ne siamo fuori. Lo dimostrano i numeri che vediamo ogni giorno, lo dimostrano i cluster che si sono verificati in varie aree, da Mondragone a Palmi, dal Veneto a Bologna. […] La curva è certamente in flessione, ma non tende a zero. Tra l’altro se si guarda l’ultimo periodo stiamo sempre tra i 100 e i 200 casi, se non oltre. Non è nel mio stile fare allarmismi, ma non possiamo nemmeno essere così superficiali da dire che siamo nella fase che porta all’estinzione dell’epidemia.
Influenza spagnola
Il concetto di “seconda ondata” deriva in parte della esperienze precedenti con altre malattie infettive, che determinarono pandemie come quella della cosiddetta “influenza spagnola” circa un secolo fa. Nella primavera del 1918 la spagnola interessò l’emisfero nord, poi ridusse la propria presenza nell’estate dello stesso anno e si ripresentò con maggior forza nell’autunno. Su scala minore, avvenne qualcosa di simile nel 2009 con la pandemia da influenza suina.
Entrambe queste pandemie furono determinate da virus influenzali, quindi diversi dall’attuale coronavirus (SARS-CoV-2) che causa la COVID-19. I coronavirus sono noti dagli anni Sessanta e alcuni sono responsabili di quello che comunemente chiamiamo raffreddore, anche se non sono gli unici virus a causarlo. Secondo diversi ricercatori, non tutti i coronavirus hanno una loro stagionalità come i virus influenzali, ed è quindi difficile stabilire se in particolari periodi dell’anno siano più presenti o comportino un rischio maggiore di causare epidemie molto diffuse.
Stagionalità
Molti elementi della stagionalità dei virus sfuggono ancora oggi ai virologi. Sulla base di oltre un secolo di studi e osservazioni, sappiamo che l’influenza tende a presentarsi nella seconda parte della stagione fredda, e che poi riduce la propria presenza nella stagione calda, per ripresentarsi infine con il ritorno del freddo. Questa alternanza si verifica in entrambi gli emisferi, dove le stagioni sono invertite (quando da noi è inverno in Australia è estate, per intenderci), ma le sue cause non sono ancora completamente note.
L’ipotesi è che ci siano numerosi fattori che – combinati insieme – determinano la stagionalità dell’influenza. Durante la stagione fredda tendiamo a trascorrere molto più tempo al chiuso e in ambienti con scarso ricambio d’aria: le condizioni ideali favorire la diffusione dei virus respiratori. A molte latitudini, il clima invernale tende a essere meno umido rispetto a quello estivo, e questo sembra influire sulla capacità dei virus influenzali di diffondersi.
Per contro, d’estate trascorriamo molto più tempo all’aria aperta e pratichiamo quindi nei fatti, senza nemmeno rendercene troppo conto, un maggiore distanziamento fisico. Secondo alcune ricerche, inoltre, la maggiore presenza di raggi ultravioletti derivanti dalla radiazione solare contribuisce a degradare le particelle virali presenti sulle superfici all’esterno, riducendo quindi il rischio di contaminazione.
Nei mesi scorsi si era ipotizzato che queste circostanze tipiche dei virus influenzali avrebbero potuto riguardare il coronavirus, ma ora abbiamo diversi elementi per dubitarne. Negli Stati Uniti, per esempio, è estate come da noi in Europa, ma i nuovi casi positivi rilevati continuano ad aumentare con stati in cui sono state scoperte decine di migliaia di contagi in pochi giorni. L’aumento è dovuto solo in parte a una maggiore capacità dei laboratori di effettuare i test, e ci dice che la circolazione tra la popolazione del coronavirus è tale da rendere marginali i potenziali effettivi positivi della stagione calda.
Immunità
A oggi i virologi non sanno se il coronavirus sia un virus stagionale come quello dell’influenza, e di conseguenza è molto difficile fare previsioni su cosa potrebbe accadere nei prossimi mesi. I ricercatori sanno però che la maggior parte della popolazione non ha alcun tipo di immunità contro l’attuale coronavirus, e che questa condizione potrebbe influenzare l’andamento della pandemia più di qualsiasi altro fattore, compreso quello della stagionalità.
Anche se si presentano con varianti diverse ogni anno, i virus influenzali mantengono alcuni elementi in comune verso i quali il nostro sistema immunitario riesce a mantenere una memoria, consentendoci di riuscire a superare meglio la malattia nel caso di una nuova infezione. Contro l’influenza abbiamo inoltre a disposizione ogni anno un vaccino, calibrato sulle varianti del virus che si stima saranno più in circolazione, e che consente di salvare annualmente milioni di vite in tutto il mondo grazie alla sua somministrazione agli anziani e alle altre persone a rischio. Il vaccino contribuisce a ridurre la circolazione del virus influenzale, con benefici anche per chi non può vaccinarsi o è in fasce della popolazione considerate meno a rischio.
Anche se ci sono migliaia di ricercatori che ci stanno lavorando e sono già in corso le prime sperimentazioni cliniche, al momento non disponiamo di un vaccino contro il coronavirus, e questo determina una maggiore difficoltà nel controllare la diffusione della COVID-19. Non è inoltre chiaro se si possa diventare immuni al coronavirus, con quale livello di efficacia e per quanto tempo.
La mancanza di immunità, indotta dal vaccino o dall’aver contratto il coronavirus e avere poi superato l’infezione, secondo alcuni epidemiologi spiega perché la malattia continui a essere presente in modo significativo anche durante l’estate, determinando una scarsa stagionalità del virus.
Buone pratiche
Come altri esperti, Locatelli ritiene comunque che il caldo e le abitudini sociali che determina, come quelle di rimanere più a lungo all’esterno, vadano “sfruttati al meglio” per “ridurre sempre più la circolazione del virus, perché arriveranno mesi tardo-autunnali e invernali con condizioni climatiche che favoriscono la circolazione dei virus respiratori. E il SARS-CoV-2 non fa eccezione”. Un numero crescente di ricerche ha inoltre evidenziato come il coronavirus possa trasmettersi per via aerea negli ambienti chiusi e con scarso ricambio d’aria, condizione che potrebbe comportare più rischi di contagio quando torneremo a trascorrere più tempo al chiuso.
Per immaginare che cosa potrebbe attenderci, alcuni ricercatori hanno analizzato l’andamento della pandemia negli ultimi mesi nei paesi dell’emisfero australe, dove ora è inverno. Confronti di questo tipo sono però difficili da fare, perché climaticamente l’inverno in buona parte dei paesi dell’emisfero australe è meno rigido di quello boreale, più che altro per questioni di latitudine.
Alcune parti dell’Australia potrebbero essere un valido metro di paragone, ma il paese ha registrato un numero piuttosto contenuto di casi positivi dall’inizio della pandemia (circa 10mila casi rilevati su una popolazione di 25 milioni di persone), e registra una bassa circolazione del coronavirus, se paragonata con molti paesi europei, asiatici e con gli Stati Uniti.
Oltre a non essere molto aderente alla realtà, il modo di dire “seconda ondata” non piace a diversi esperti e osservatori perché sembra indicare che la pandemia sia inevitabile e fuori dal nostro controllo, con il rischio che quindi molte persone non attuino le buone pratiche per ridurre i contagi ritenendole inutili.
In realtà, impedire che i contagi tornino ad aumentare sensibilmente dipende dalle politiche e dalle decisioni assunte dai governi e dalle autorità sanitarie, e dall’aderenza alle indicazioni da parte della popolazione. La riduzione dei casi giornalieri rilevati in buona parte dell’Europa è derivata da molti fattori (non tutti ancora noti), e tra questi sono compresi i lockdown e il distanziamento fisico, che continua a essere praticato in buona parte del continente.