“Ghost” poteva essere un fallimento totale
E invece fu il film più visto dell'anno in cui uscì, il più rivisto l'anno successivo e uno dei più ricordati e citati: anche oggi che sono passati trent'anni
Qualche anno fa Demi Moore raccontò che quando le proposero il ruolo da protagonista femminile in Ghost, lei – non ancora trentenne e già famosa ma non ancora famosissima – era molto preoccupata. «È una storia d’amore», disse, «e c’è lui che è morto che cerca di salvare lei, e c’è una parte di commedia, ma alla fine è una storia d’amore». Moore raccontò di aver pensato che con queste premesse poteva essere «la ricetta per un disastro e un fallimento totale» oppure «qualcosa di davvero speciale e sorprendente». Fu evidentemente la seconda.
Ghost uscì negli Stati Uniti il 13 luglio 1990 e in Italia nell’autunno seguente: costato circa 20 milioni, di dollari finì per incassarne più di 500 in tutto il mondo. Fu il film più visto di quell’anno (davanti a Mamma, ho perso l’aereo, Pretty Woman e Balla coi lupi) e la videocassetta più noleggiata di quello successivo. Malgrado diverse recensioni piuttosto tiepide, fu candidato a cinque premi Oscar e ne vinse due: per la miglior sceneggiatura originale e per la miglior attrice non protagonista (Whoopi Goldberg).
E poi, certo, conteneva questa scena:
Ghost (Ghost – Fantasma nel suo ridondante titolo italiano) è però tanto altro, oltre alla scena del vaso. È un film che partendo da premesse più o meno strampalate riuscì a mescolare bene una serie di ingredienti e ad azzeccare una serie di momenti e alchimie tra attori e attrici, rendendosi interessante e peculiare sotto diversi punti di vista. Come ha scritto Scott Tobias sul Guardian, «aveva qualcosa per tutti: era una storia d’amore che sconfina nel trascendente, una commedia su una finta medium e un thriller su un complotto mortale». Ed era anche un film molto sfrontato nel suo punto di vista sull’amore (quello vero non finisce mai) e diretto nella sua tesi, che si può riassumere così: «Dio ha un piano per tutti noi e i buoni saranno separati dai cattivi con la stessa chiarezza con cui lo fa la sceneggiatura».
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La sceneggiatura la scrisse Bruce Joel Rubin, che negli anni Ottanta aveva scritto quelle del film di fantascienza Brainstorm – Generazione elettronica e dell’horror Dovevi essere morta, e che in seguito avrebbe scritto quella di Deep Impact. Rubin disse di aver avuto l’idea dopo aver visto l’Amleto, e aggiunse che nella sua prima versione la storia era molto più cupa: forse anche per questo, dovette tenerla nel cassetto per qualche anno prima di trovare qualcuno disposto a investirci. Pur di vederla trasformata in film, Rubin dovette farsi andare giù il fatto che a dirigerla sarebbe stato, nel suo primo film in solitaria, Jerry Zucker, che insieme al fratello David e a Jim Abrahams aveva scritto e diretto la commedia demenziale L’aereo più pazzo del mondo e aveva collaborato ad altri progetti televisivi e cinematografici del trio.
In poche parole, Rubin temeva che il suo film serio e drammatico fosse trasformato pezzo dopo pezzo in un film comico, una sorta di parodia di quello che lui aveva in mente. La collaborazione tra i due fu laboriosa – si parla di 19 riscritture della sceneggiatura – ma evidentemente proficua, perché riuscirono a condensare tanta storia e tanti generi in poco più di due ore di film, aggiungendo parti più divertenti ma senza sconfinare mai nella comicità fine a se stessa.
Fu lenta anche la scelta dei protagonisti: sembra che Swayze fu selezionato dopo che erano stati presi in considerazione una decina di altri attori (compreso Bruce Willis, che nove anni dopo avrebbe fatto Il sesto senso) e sembra che fu solo dopo un suo consiglio che si pensò a Goldberg per il ruolo della medium. Si racconta invece che Demi Moore fu scelta soprattutto per la sua abilità nel piangere a comando (nel film avrebbe dovuto farlo molto) e che fu però lei a rendere il suo personaggio più risoluto e indipendente di come era stato scritto e a scegliere, senza comunicarlo prima al regista, di tagliarsi i capelli corti.
Swayze era già famoso per Dirty Dancing ma, come ha scritto il Guardian, fu soprattutto questo ruolo a imporlo come un sex symbol diverso da quelli che andavano per la maggiore degli anni Ottanta: più “gentile” e “rassicurante”, seppur comunque muscoloso e muscolare. Era tra l’altro un ruolo per niente facile: le scene per rendere fisicamente presente il personaggio (di nuovo: la scena del vaso) e per farne capire la bontà d’animo erano poche; in tutte quelle da “fantasma” Swayze dovette invece recitare senza contatti fisici con la sua amata e senza che la maggior parte degli altri personaggi potesse guardarlo e quindi interagire direttamente con lui.
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Eppure il film trovò le giuste alchimie tra persone e personaggi e divenne quello che il Guardian ha definito: «qualcosa di raro come un unicorno e il prototipo di film che Hollywood non sembra più interessata a fare: una storia originale, dal basso budget, con una storia d’amore e qualcosa sotto di spirituale». Poco dopo la sua uscita nei cinema, la rivista Time ne parlò come di «un brutto film che piacerà a molti».
Chi arrivava al cinema avendo già visto il trailer comunque aveva già una buona idea di quello che il film sarebbe stato, perché il trailer è uno di quelli che fanno una gran sintesi di quasi tutta la trama: dalla morte di lui fino a quasi il finale; passando per i dubbi di lei, il praticantato da fantasma di lui e il rapporto di lui con la finta medium egoista che alla fine non è né finta né egoista, e (di nuovo) la scena del vaso.
Nel trailer manca la scena in cui lui (Sam) entra nel corpo della medium (Oda Mae) per poter ballare un’altra volta con lei (Molly); una scena che secondo molti sarebbe stata molto più d’effetto se a baciarsi e ad accarezzarsi fossero stati i corpi di Moore e Goldberg.
Altre scene che non sono quella del vaso ma che sono comunque entrate piuttosto prepotentemente nella memoria di molti spettatori sono tutte quelle che riguardano il fatto che lei dica a lui “ti amo” e che lui sia solito rispondere “idem”.
Nella versione originale “idem” (parola di nota origine latina) è però “ditto”, cioè il modo con cui in inglese si dice “idem” (a sua volta derivato dall’italiano “detto”).
Tornando invece (di nuovo) alla scena del vaso: si dice che il vaso si ruppe per errore e che Swayze e Moore continuarono a girare lo stesso. Ed è certo – qui sotto le prove – che senza “Unchained Melody”, canzone degli anni Cinquanta che Ghost fece tornare di gran voga, la scena non sarebbe stata la stessa.
C’è poi il finale, che vince a mani basse contro qualsiasi altro finale strappalacrime. Perché lei finalmente sente lui, e poi arriva una luce celestiale dall’alto e lei lo può persino vedere. Illuminato e angelico, che capisce che il suo lavoro è finito e se ne deve andare perché lassù “lo aspettano”. Però prima bacia l’amata, si congeda con la medium e dice infine a Molly che l’ama. Molly risponde come altrimenti non potrebbe e lui se ne va verso la luce dicendo «è meraviglioso, Molly, l’amore che hai dentro portalo con te».
In italiano Molly e Sam si dicono addio; in inglese il congedo è invece “see you“, ci vediamo.
A prescindere dalle parole, è un finale totale per una commedia romantica, che come ha scritto il Guardian, «è quel tipo di finale che nessuna storia d’amore convenzionale potrebbe raggiungere, perché Ghost trasforma il “vissero felici e contenti” in un “furono felici e contenti per l’eternità”, confermando che il paradiso esiste, che l’amore dura per sempre e che rivedremo i nostri cari».
Poteva essere, come tutto il resto del film, un fallimento totale, l’esagerato finale di una parodia involontaria, un thriller paranormale con un personaggio comico e al centro una storia d’amore di spropositata sdolcinatezza. È stato il più grande successo del suo anno e una delle storie d’amore cinematografiche più note degli ultimi – da oggi – trent’anni.