Per le minoranze musulmane i problemi non finiscono nemmeno dopo la morte
Devono adattare i riti funebri alle nuove norme sanitarie, difendere il divieto di cremazione del loro culto e, in Italia, affrontare la grande scarsità di cimiteri
La gestione dei cadaveri è stata – e in alcuni posti è tuttora – un grosso problema conseguente all’epidemia di COVID-19: il trasporto di bare in veicoli militari da Bergamo ai forni crematori di altre città a marzo e il ritrovamento di alcune decine di corpi già decomposti ammassati all’interno di due furgoni a New York ad aprile sono stati solo due dei più eclatanti esempi della criticità del problema.
Per le persone musulmane che vivono in paesi a maggioranza non musulmana questo problema è ancora più difficile da gestire, per tre motivi: il rito funebre tradizionale prevede delle azioni non in linea con le misure sanitarie di precauzione, la cremazione (promossa in alcuni paesi come soluzione poco ingombrante e quindi utile per affrontare l’aumento dei morti) non è permessa, perché considerata contraria alla dignità della persona morta; la chiusura delle frontiere ha reso impossibile il trasporto delle salme nel paese d’origine dei musulmani di origini straniere. Questo in Italia ha messo in evidenza un problema che esisteva già prima dell’emergenza: non ci sono abbastanza cimiteri musulmani.
La gestione sanitaria del rito funebre tradizionale
Secondo la religione musulmana il corpo di un fedele morto deve essere lavato con acqua calda, tre volte se maschio e cinque volte se femmina (questa fase è detta ghusl) e avvolto in un panno (detto kafan, parola che per estensione indica l’intera operazione dell’avvolgimento), per poi restare solitamente alcune ore in una stanza dove i parenti possono fargli visita. Poi c’è una preghiera collettiva (salāt al-janāzah) e l’inumazione nella terra (dafin), con la testa girata verso la città sacra La Mecca, in Arabia Saudita.
Riguardo alla possibilità di modificare i riti funerari in casi di emergenza come guerre o epidemie, la legge islamica specifica che la tutela della vita è uno dei cinque principi fondamentali della charia (maqāsid al-sharīʿa) e prevale su quello della dignità del morto. In altre parole, se è necessario per tutelare i viventi, sono ammesse anche pratiche funerarie non conformi a quelle tradizionali, come l’assenza di lavaggio, l’avvolgimento nel kafan di un corpo ricoperto da un sacco protettivo o la sepoltura in tombe collettive (a condizione che uomini e donne siano separati da una barriera di polvere).
Il Comitato Internazionale della Croce Rossa, importante associazione umanitaria internazionale, ha pubblicato delle istruzioni per eseguire funerali musulmani che siano rispettosi sia delle norme sanitarie che dei principi religiosi. Le fasi del lavaggio e quelle della preghiera sono quelle che hanno subìto le maggiori modifiche, perché nello svolgimento tradizionale richiedono rispettivamente il contatto con delle persone morte (e in questo caso, spesso infette) e un assembramento di persone. In Italia l’UCOII (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia) ha emesso un vademecum che ribadisce le regole del rito funerario precisando le eccezioni dovute all’emergenza.
Come nel caso dei funerali laici o cattolici, i musulmani morti di COVID-19 non vengono lavati, in questo periodo; al funerale possono essere presenti poche persone mantenendo la distanza di sicurezza. Questo non è un problema enorme per il rito musulmano, perché prevede che la preghiera collettiva sia valida purché fatta da un minimo di due persone.
Il dottor Said Mahdy, imam di Bologna che di professione fa il dentista (l’imam, diversamente dal prete cattolico, non ha bisogno di una formazione specifica, etimologicamente è semplicemente la persona che guida la preghiera, poi nel contesto delle città italiane una persona di riferimento della comunità musulmana locale spesso diventa l’imam della città e acquista un ruolo simile a quello dei preti cattolici, celebrando messe e funerali), ha raccontato al Post che ci sono stati quattro funerali musulmani dall’inizio della crisi a Bologna. Lui ha trattato solo uno di questi corpi e l’ha fatto come da tradizione, senza misure sanitarie speciali, perché la persona non era morta di COVID-19. Durante le preghiere collettive c’erano fra le 6 e le 13 persone, disposte in file e con le distanze di sicurezza, indossando le mascherine. Due di queste cerimonie sono state trasmesse in diretta e sono tuttora disponibili sulla pagina Facebook del centro culturale islamico di Bologna.
La cremazione
Le tre grandi religioni monoteiste (cristianesimo, islam e ebraismo) considerano la cremazione (cioè la riduzione in ceneri del cadavere) una violazione della dignità del morto, ma il cristianesimo è più indulgente delle altre due. Molte correnti protestanti la accettano in ogni caso, i cattolici solo a condizione che l’urna funeraria sia poi seppellita in un luogo sacro (quindi che non sia tenuta in casa né che le ceneri siano disperse).
La cremazione occupa meno spazio e costa di meno rispetto alle altre due principali tecniche di sepoltura (inumazione, cioè in una bara di legno degradabile sepolta nella terra, e tumulazione, cioè in una bara non degradabile sepolta nella terra o in un loculo), quindi negli ultimi anni il suo uso sta aumentando in molti paesi a maggioranza cristiana, grazie al rilassamento del divieto cattolico e alla diminuzione dei praticanti. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti più della metà delle sepolture sono cremazioni. In Italia nel 2019 erano il 30 per cento. L’aumento di mortalità degli ultimi mesi dovuto all’epidemia di COVID-19 ha accelerato la tendenza all’aumento delle cremazioni perché i corpi così occupano meno spazio, soprattutto se l’urna non viene seppellita.
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Agli occhi della comunità musulmana e di quella ebraica, però, il divieto di cremazione è inderogabile, anche in caso di guerre o epidemie. Negli ultimi mesi nel mondo ci sono stati episodi in cui l’aumento delle cremazioni dovuto alla crisi sanitaria ha messo in discussione il diritto di rifiutare la pratica per motivi religiosi.
In Sri Lanka, paese a maggioranza buddista ma dove quasi il 10 per cento della popolazione è musulmana, la preoccupazione che la sepoltura potesse contribuire alla diffusione del contagio (malgrado non esistano fonti autorevoli a favore di questa ipotesi) ha portato a cremare almeno due musulmani contro la volontà delle loro famiglie, ma potrebbero essere di più. Un caso simile è avvenuto in Argentina per i corpi di due ebrei.
Anche il Regno Unito a marzo aveva proposto di permettere alle autorità locali di imporre la cremazione anche in opposizione al desiderio della famiglia della persona morta, per permettere di gestire l’aumento della domanda di servizi funerari, ma la proposta aveva generato proteste dalle comunità musulmane e ebree britanniche ed era stata ritirata.
In India c’è stata una situazione simile: a marzo un’ordinanza aveva decretato che tutti i morti malati di COVID-19 dovessero essere cremati (il rito funebre dell’induismo, religione maggioritaria del paese, prevede in ogni caso di bruciare il morto durante la cerimonia), ma era stata poi ritirata per tutelare le minoranze del paese, fra cui quella cristiana, dove i più conservatori si opponevano alla cremazione.
Questi casi isolati inquietano molte comunità musulmane minoritarie nel mondo, che temono che il loro diritto di rifiutare la cremazione venga sospeso sulla base dell’emergenza, come sono state sospese altre libertà considerate fondamentali, per esempio quella di movimento.
Pochi cimiteri
La chiusura delle frontiere ha reso impossibile il trasporto delle salme dei musulmani di origine straniera nel paese di provenienza, pratica diffusa soprattutto fra i residenti in Francia e in Italia. Costretti a organizzare i funerali nel paese di residenza, i musulmani devono affrontare il problema della mancanza di spazi dedicati a loro nei cimiteri italiani e francesi.
Prima della crisi dovuta all’epidemia di COVID-19, in Italia solo una cinquantina di comuni – sui quasi 8mila esistenti – avevano un cimitero musulmano, ha detto il presidente dell’UCOII Yassine Lafram al Post.
La famiglia di una persona musulmana morta in uno dei numerosi comuni sprovvisti di un cimitero apposito che vuole seppellire la persona in un altro comune deve richiedere il permesso alle giunte di entrambi i comuni (quello di residenza e quello dove si vuole seppellire il morto). Inoltre spesso la famiglia della persona morta deve coprire i costi del funerale se decide di farlo in Italia, mentre alcune associazioni culturali se ne occupano in caso di trasporto nel paese d’origine. È il caso della comunità marocchina di Bologna, i cui membri pagano regolarmente un piccolo contributo che crea un fondo per finanziare il trasporto e la sepoltura dei morti in Marocco. L’imam di Pisa ha raccontato al Post che anche l’ambasciata tunisina si occupa del rimpatrio delle salme, dal punto di vista sia organizzativo che economico.
Ma l’esportazione delle salme non è una soluzione efficace a lungo termine. L’imam di Bologna ha sottolineato che per la religione musulmana bisogna organizzare il funerale nel più breve tempo possibile, perché l’attesa della sepoltura (che dura almeno una settimana se si decide di esportare la salma, perché bisogna ottenere dei permessi e comprare i biglietti aerei) va contro la dignità del morto. Inoltre se per le prime generazioni di immigrati farsi seppellire nel paese di provenienza può essere un omaggio alle proprie radici, le generazioni successive hanno spesso più legami con l’Italia che con il paese d’origine e preferirebbero quindi essere seppellite in Italia. Esistono inoltre circa 100mila musulmani, secondo una stima del sociologo Fabrizio Ciocca, che non hanno origini straniere e quindi, anche volendo, nessun paese alternativo all’Italia per la sepoltura.
La crisi legate all’epidemia di COVID-19, quindi, ha evidenziato un problema che esisteva da prima. Da anni l’UCOII sta trattando con le giunte comunali per cercare di ottenere la costruzione di un cimitero musulmano almeno in ogni capoluogo di provincia. Le autorità comunali, secondo l’articolo 100 del decreto del presidente della Repubblica 295/1990, hanno facoltà – e non obbligo – di concedere uno spazio dedicato a un gruppo religioso diverso da quello cattolico che ne faccia richiesta: la giunta comunale può decidere quindi liberamente se concedere o no i cimiteri ai musulmani.
Yassine Lafram ha spiegato al Post che per “cimitero musulmano” si intende una sezione dedicata apposta alla sepoltura di fedeli musulmani, mentre alcuni comuni insistono perché i morti musulmani siano sepolti nelle sezioni acattoliche dei cimiteri, come gli atei o le persone di altre fedi religiose minoritarie. Lafram ha precisato che essere sepolti in mezzo a persone della stessa fede per i musulmani è ancora più importante che attenersi al rito funebre tradizionale: in altre parole, la dignità di un morto sepolto in un cimitero musulmano senza lavaggio e avvolgimento nel kafan è più rispettata rispetto a quella di uno sepolto in mezzo a non musulmani pur avendo seguito il rito alla perfezione.
L’imam di Pisa ha raccontato con rammarico che da anni cerca di ottenere dalla giunta comunale una sezione di cimitero dedicata ai musulmani, come quella di Firenze, ma al momento ha a disposizione solo il terreno acattolico a nord della città.
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A marzo, quando le frontiere furono chiuse e la mortalità per la COVID-19 era molto alta, Repubblica parlò del problema della scarsità di cimiteri musulmani in Italia come di «un’emergenza dentro l’emergenza». L’UCOII pubblicò una lista dei 76 posti dove i musulmani potevano seppellire i propri morti in Italia – comprendeva una cinquantina di cimiteri preesistenti alla crisi e i restanti ottenuti in via eccezionale – e invitò le giunte comunali dei territori dove erano presenti i cimiteri a accettare i corpi provenienti da altri comuni.
Il presidente del Centro Culturale Islamico di Bergamo ha dovuto affrontare questo problema in prima persona. Ha spiegato al Post che a Bergamo esiste un cimitero islamico (in uso dal 2012) grazie a un progetto elaborato con la giunta comunale nel 1998 e alla collaborazione dell’avvocato Roberto Bruni, sindaco dal 2004 al 2009, del Partito Democratico.
Il presidente ha stimato che, prima della crisi, nel cimitero musulmano di Bergamo fossero seppelliti una media di circa 15 morti all’anno. Dall’inizio della crisi, invece, ce ne sono stati più di 50, dovuti all’aumento della mortalità, alla chiusura delle frontiere, e alla conseguente affluenza di salme anche da paesi vicini. È preoccupato perché le quattro sezioni del cimitero (tre maschili e una femminile) si stanno riempiendo in fretta. Prima della crisi una sola delle tre sezioni maschili era occupata, secondo la sua stima, per il 70 per cento. Oggi quella sezione si è riempita completamente e una seconda è piena quasi per metà. Anche la sezione femminile si è riempita molto, ma meno velocemente perché sono morte meno donne che uomini.
Ad aprile, un momento molto duro della crisi, il presidente del Centro Culturale Islamico di Bergamo fece un’eccezione all’obbligo di separazione fra uomini e donne nella sepoltura. Una donna marocchina residente in provincia di Bergamo si ammalò di COVID-19. Suo marito ebbe un attacco di cuore e morì, poco prima di lei, secondo il presidente anche per via del dolore causato dalla malattia della moglie. La famiglia della coppia chiese il permesso al Centro Culturale Islamico di seppellire marito e moglie insieme, per alleviare il dolore della loro perdita. Il presidente inizialmente rifiutò ma, dopo aver consultato l’autorità religiosa nazionale, cambiò idea.
Se a Bergamo la situazione è stata molto critica, anche in altre città i cimiteri hanno dovuto accogliere persone provenienti da lontano: l’imam di Bologna ha raccontato al Post che a inizio aprile ha organizzato il funerale di un marocchino di fede musulmana morto di COVID-19 a Catania, dove era andato a trovare la sua famiglia. Il suo corpo non poté essere rispedito in Marocco per via della chiusura delle frontiere e, non essendoci un cimitero musulmano a Catania, fu trasportato e sepolto a Bologna.
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Negli ultimi due mesi l’intensità delle richieste di sepoltura nel cimitero islamico di Bergamo è molto diminuita: il presidente ha stimato che, se da marzo a maggio riceveva una o più chiamate per un funerale quasi tutti i giorni, negli ultimi mesi ne ha ricevute più o meno una a settimana. Dice di contare sulla riapertura dei confini: Pakistan, Bangladesh e Senegal hanno già riaperto, l’imam di Pisa ha raccontato che quest’ultimo recentemente ha accettato la salma di un cittadino senegalese residente a Pontedera (non malato di COVID-19). Ma il Marocco, secondo il lavoro di Ciocca il primo paese di provenienza dei musulmani italiani, non ha ancora riaperto le frontiere.
Lafram ha raccontato che la crisi non è assolutamente finita: un paio di giorni fa ha ricevuto la telefonata di una musulmana residente in provincia di Brescia che gli ha raccontato, in lacrime, che non è riuscita a ottenere il permesso per seppellire il fratello nel cimitero islamico di Brescia e quindi è stato sepolto in un cimitero non islamico.
Un articolo del New York Times ha analizzato il caso francese, che presenta problemi simili a quelli dell’Italia: la scarsità di cimiteri, già problematica, è diventata una questione critica a causa della chiusura delle frontiere dei paesi nordafricani. Nel 2016 nonostante il 9 per cento della popolazione francese fosse musulmana solo il 2 per cento dei cimiteri del paese presentavano una sezione dedicata a questa minoranza. Secondo una stima della ricercatrice Valérie Cuzol, l’80 per cento dei musulmani residenti in Francia sceglie di essere seppellita nel paese d’origine, ma per molti questo non è più possibile a cause della chiusura delle frontiere algerine e marocchine (da cui proviene circa il 71 per cento dei musulmani residenti in Francia).