Abraham Lincoln era depresso
E così Winston Churchill, e Franz Kafka ed Emily Dickinson, ma questo non ha impedito loro di fare cose importanti, racconta Matt Haig in "Ragioni per continuare a vivere"
Quando si parla di malattie mentali e disagi psichici è molto facile dire cose indelicate o sbagliate, che possono far stare peggio chi non sta bene. Se poi sono i giornali o altri grandi media a trattare l’argomento, è ancora più importante farlo con alcune accortezze, non diffondendo informazioni sbagliate ed evitando rappresentazioni scorrette. È per questa ragione, per esempio, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha messo insieme delle linee guida su come i giornali devono parlare dei suicidi.
Uno dei temi più delicati riguarda il modo in cui si parla delle persone famose con problemi psicologici e psichiatrici: si rischia di romanticizzare o rendere affascinanti e desiderabili certe patologie e disturbi, oppure di ridurre tutta la vita di una persona alla sua malattia. Allo stesso tempo però è utile ricordare che molte persone note per aver fatto grandi cose soffrivano di depressione o altri disturbi simili: alcune per via dei loro problemi si sono suicidate, ma molte altre sono riuscite a convivere con il disagio psichico e saperlo può aiutare chi si trova in difficoltà.
Ne parla lo scrittore britannico Matt Haig in Ragioni per continuare a vivere, un libro da poco ripubblicato da E/O in italiano. Il libro è in parte un’autobiografia che racconta della depressione di Haig (in particolare di un grave episodio accaduto quando aveva 24 anni e che per molto tempo gli impedì di vivere normalmente) e in parte una serie di consigli per chi soffre di depressione o ansia e per chi ha a che fare con qualcuno con un problema del genere, senza i toni di un saggio specialistico. Nel Regno Unito ha venduto 300mila copie e ne sarà tratta una serie tv fatta dai produttori di Fleabag. Ne pubblichiamo un estratto.
***
Lincoln, a trentadue anni, dichiarò: «Tra i vivi non c’è uomo più infelice di me». A quel punto della sua vita aveva già avuto due episodi depressivi gravissimi.
«Se ciò che provo fosse equamente distribuito in tutta la famiglia umana, sulla Terra non ci sarebbe un solo viso allegro. Se mai starò meglio, non lo so dire; ho il terribile presentimento che non sarà così. Restare in queste condizioni è impossibile. Dovrò morire o migliorare».
Tuttavia, pur dichiarando apertamente che l’idea del suicidio non lo spaventava, Lincoln non si uccise. Scelse di vivere.
Su The Atlantic è uscito un bellissimo articolo di Joshua Wolf Shenk sulla depressione di Lincoln. Shenk sostiene che la depressione abbia costretto Lincoln a una più profonda comprensione della vita:
Insisteva a voler riconoscere le sue paure. Tra i venti e i trent’anni ci si calò sempre di più, soffermandosi su quella che secondo Albert Camus è l’unica vera questione con cui gli esseri umani devono misurarsi. Si domandava se avrebbe potuto vivere, sopportare l’infelicità della vita. Alla fine decise che doveva… Aveva un «insopprimibile desiderio» di realizzare qualcosa nella vita.
Evidentemente era una persona seria. Uno dei grandi della storia. Combatté guerre mentali e fisiche. Forse fu l’esperienza della sofferenza a dargli l’empatia che dimostrò quando cercò di cambiare la legge sulla schiavitù. («Ogni volta che sento qualcuno pronunciarsi a favore della schiavitù, provo il forte desiderio di fargliela sperimentare di persona» disse.)
Lincoln non è l’unico statista famoso ad aver combattuto la depressione. Anche Winston Churchill convisse con il “cane nero” per gran parte della vita. Guardando il fuoco, una volta, disse a un giovane ricercatore alle sue dipendenze: «Capisco perché i ciocchi sfrigolano. So cosa vuol dire consumarsi».
Lo sapeva, eccome. Se dobbiamo giudicare in base agli obiettivi raggiunti, è stato uno degli uomini più attivi della storia. Eppure era sempre cupo e demoralizzato.
Il filosofo della politica John Gray – uno dei miei saggisti preferiti (leggete Cani di paglia e capirete perché) – ritiene che Churchill non abbia “sconfitto” la depressione per diventare un grande leader durante la guerra, ma piuttosto che lo sia diventato proprio grazie all’esperienza della depressione.
In un articolo per la BBC, sostiene che l’«eccezionale apertura» di Churchill alle emo- zioni intense spieghi la sua capacità di percepire pericoli che menti più convenzionali non riuscivano a vedere. «Per molti dei politici e degli opinionisti fautori di una rappacificazione con Hitler, il nazismo era poco più che una turbolenta espressione del nazionalismo germanico» scrive Gray. Ci voleva una mente straordinaria per affrontare una minaccia straordinaria. «Churchill doveva le premonizioni sugli orrori futuri alle visite del “cane nero”».
Dunque la depressione è un incubo, certo. Ma può anche rivelarsi utile? Può essere un incubo che contribuisce a migliorare il mondo?
– Leggi anche: Un estratto di “Vita su un pianeta nervoso” di Matt Haig
In certi casi i legami tra depressione, ansia e produttività sono innegabili. Si pensi all’arcinoto dipinto di Edvard Munch, L’urlo. Non solo è una raffigurazione accuratissima di cosa si prova durante un attacco di panico, ma a detta dell’artista fu anche ispirato direttamente da un momento di terrore esistenziale. Cito la pagina del suo diario:
Camminavo lungo la strada al tramonto; all’improvviso il cielo si tinse di rosso sangue. Mi fermai e mi appoggiai alla staccionata, in preda a una stanchezza indicibile. Lingue di fuoco e sangue si allungavano sul fiordo nero-bluastro. I miei amici continuarono a camminare, mentre io rimasi indietro, tremante di paura. Allora sentii l’enorme, infinito urlo della natura.
Ma anche senza la “pistola fumante” di uno specifico episodio depressivo a ispirare una specifica opera di genio, è impossibile ignorare il numero dei grandi che hanno combattuto la depressione. Anche senza volersi focalizzare sulle Plath, gli Hemingway e le Woolf che si sono uccisi, la lista dei depressi dichiarati è sbalorditiva. E spesso c’è un legame tra la malattia e le opere che producono.
Buona parte del lavoro di Freud è basato sull’analisi della sua depressione e su quella che credeva essere la soluzione. Scoprì che la cocaina funzionava ma poi – dopo averla dispensata ad altri nelle sue condizioni – si rese conto che poteva creare una “leggera” dipendenza.
Franz Kafka fu un altro illustre depresso. Soffrì per tutta la vita di ansia relazionale e di quella che oggi si definisce depressione clinica. Oltretutto era ipocondriaco e viveva con la paura del cambiamento fisico e mentale. Ma essere ipocondriaco non significa non ammalarsi davvero, e a trentaquattro anni contrasse la tubercolosi. È interessante osservare che le cose a cui ricorreva per alleviare i suoi sintomi depressivi – nuotare, andare a cavallo, fare escursioni – sono tutte attività fisiche sane.
Si può dire, allora, che la claustrofobia e il senso di impotenza presenti nelle sue opere – e spesso interpretati solo in termini politici – fossero anche la conseguenza di una malattia claustrofobica?
Il suo romanzo più famoso è La metamorfosi. È la storia di un commesso viaggiatore che al risveglio si ritrova trasformato in un insetto gigante che ha dormito troppo ed è in ritardo per andare al lavoro. Il tema è l’effetto disumanizzante del capitalismo, certo, ma lo si può leggere anche come una metafora della depressione, la più kafkiana della malattie. Come a Gregor Samsa, anche ai depressi qualche volta capita di svegliarsi nella stanza in cui si sono addormentati sentendosi completamente diversi. Estranei a se stessi. Intrappolati in un sogno.
– Leggi anche: I farmaci antidepressivi funzionano
Ugualmente, dobbiamo chiederci se Emily Dickinson avrebbe potuto scrivere la poesia Sentivo un Funerale, nel Cervello senza aver provato una profonda angoscia mentale. È ovvio che la maggior parte dei depressi non diventa Lincoln, Dickinson, Churchill o Munch, né Freud o Kafka (né Mark Twain, Sylvia Plath, Georgia O’Keeffe, Ian Curtis, Kurt Cobain). Ma nemmeno chi non è depresso.
Nel contesto della malattia mentale, spesso si usa il termine “nonostante”. Il tale ha fatto la tal cosa nonostante soffrisse di depressione/ ansia/disturbo ossessivo-compulsivo/agorafobia/o quello che è. Ma a volte il “nonostante” dovrebbe essere un “perché”. Io, ad esempio, scrivo perché ho sofferto di depressione. Prima non ero uno scrittore. L’intensità che serve – per esplorare le cose con curiosità ed energia inarrestabili – non ce l’avevo. La paura ci rende curiosi. La tristezza ci spinge a filosofeggiare. («Essere o non essere?» per molti depressi è un dilemma quotidiano.)
Per tornare a Lincoln, l’aspetto che mi preme sottolineare è che il presidente americano soffrì sempre di depressione. Non se ne liberò mai, e tuttavia riuscì a conviverci e a rea- lizzare grandi cose. «La grandezza di Lincoln non può essere spiegata come un trionfo sulla sofferenza personale» dice Joshua Wolf Shenk nell’articolo che ho già citato. «Piuttosto, bisogna considerarla un prodotto dello stesso sistema che ha generato quella sofferenza… Lincoln non fece grandi cose perché aveva risolto il problema della sua melanconia; anzi, tale problema alimentò il fuoco che lo animava».
Ecco. Anche se non superiamo del tutto la depressione, possiamo imparare a usare quello che il poeta Byron chiamò «dono terribile».
Non dobbiamo usarlo per governare una nazione, come Churchill e Lincoln. E nemmeno per dipingere un capolavoro.
Basta che lo usiamo nella vita. Per quanto mi riguarda, trovo che essere amaramente consapevole della mortalità mi dia la determinazione di godermi la vita quando se ne presenta l’occasione. Mi permette di apprezzare fino in fondo i momenti preziosi con i miei bambini e con la donna che amo. Aggiunge intensità nel bene come nel male.
Arte e passione politica sono solo due dei modi in cui questa intensità si manifesta, ma ce ne sono milioni di altri; nella maggior parte dei casi, non rendono famosi, ma spesso, nel lungo periodo, danno più di quanto non tolgano.
© Edizioni e/o