• Domenica 12 luglio 2020

La crisi alimentare provocata dal coronavirus in Nigeria

Il lockdown ha bloccato le attività agricole nel nord del paese, dove viene prodotta la maggior parte del cibo consumato dalla popolazione

di Massimo Taddei

(EPA/AKINTUNDE AKINLEYE via ANSA)
(EPA/AKINTUNDE AKINLEYE via ANSA)

Mentre i casi di coronavirus continuano a crescere, in Nigeria alla crisi sanitaria si sta sommando quella legata alla mancanza di cibo. Le misure restrittive imposte per contrastare l’epidemia rischiano di causare enormi perdite di raccolto nel nord del paese, l’area in cui viene coltivata la maggior parte dei prodotti agricoli. In uno stato già indebolito dal terrorismo islamico e dalle diseguaglianze sociali, il diffondersi del coronavirus si sta traducendo in una crisi umanitaria, nonostante la crescita degli aiuti internazionali.

La Nigeria è indipendente dal Regno Unito dal 1960, e ha 200 milioni di abitanti: è il primo stato dell’Africa e il settimo al mondo per popolazione. Dall’inizio degli anni Duemila ha conosciuto una rapida espansione economica legata alla sua posizione e alle risorse petrolifere, che l’ha resa nel 2012 la prima economia africana, superando il Sudafrica. Gli effetti positivi di questa crescita, però, si sono concentrati soprattutto nelle grandi città come Lagos, il principale porto e centro finanziario, che produce circa un terzo del Pil nazionale. Il resto del paese, invece, patisce gli effetti di una disuguaglianza economica tra le più alte al mondo: nonostante la Nigeria sia la patria dell’uomo più ricco d’Africa, il 40 per cento dei cittadini vive con meno di un dollaro al giorno, 57 milioni di nigeriani non hanno accesso immediato all’acqua potabile e oltre 130 milioni vivono in condizioni sanitarie inadeguate.

I numeri ufficiali sui contagi in Nigeria risultano molto bassi: i casi di coronavirus sono circa 30mila, mentre le morti sono state meno di mille. Ma come in molti altri paesi in via di sviluppo, questo è dovuto soprattutto alla mancanza di tamponi: il Sudafrica, che ha un quarto della popolazione nigeriana ed è stato il paese africano più efficiente nel tracciare il contagio, ha fatto circa 33mila tamponi ogni milione di abitanti, contro i soli 823 per milione della Nigeria. L’impossibilità di applicare il distanziamento fisico per moltissimi abitanti e la mancanza di dispositivi di protezione individuale sufficienti fanno però pensare che la situazione sia peggiore di quanto dicano i dati ufficiali. La baraccopoli di Makoko nella periferia di Lagos, per esempio, ospita almeno 85mila persone in meno di un chilometro quadrato, mentre molti conducenti degli autobus della città sembrerebbero riciclare le mascherine fornite ai viaggiatori, che le restituirebbero una volta scesi dal mezzo perché vengano utilizzate di nuovo dagli utenti successivi.

La Nigeria ha imposto il lockdown a partire dalla fine di marzo in tutte le aree del paese. Cinque settimane dopo, il 27 aprile, il presidente Buhari ha cominciato ad allentare le misure restrittive, che si sono poi trasformate in un coprifuoco notturno a partire dal 4 maggio. La prima fase di riduzione delle restrizioni si è conclusa il 1° giugno, mentre la seconda sarebbe dovuta terminare il 29 dello stesso mese, ma è stata prorogata fino al 27 luglio a causa della crescita dei contagi. I movimenti non essenziali tra stati – la Nigeria è una repubblica federale – sono di nuovo possibili a partire dal 1° luglio. Molte attività, tra cui le scuole, non sono ancora state riaperte. Al momento i principali focolai si trovano ad Abuja, la capitale al centro del paese, a Lagos nel Sud, e in alcune aree nel Nord del paese, in particolare nella regione di Kano.

Il Nord della Nigeria è la zona in cui si concentra la maggior parte della produzione agricola, ma la scarsa produttività dei campi e soprattutto l’impossibilità di lavorarli a causa del lockdown, hanno contribuito a creare una crisi alimentare. Il settore agricolo è composto prevalentemente da piccoli coltivatori, spesso donne, che forniscono cibo anche alle grandi città centromeridionali, che adesso faticano a soddisfare la propria domanda di generi alimentari.

La mancanza di prodotti agricoli non è stata solamente frutto della minore produzione, ma anche della difficoltà nel trasportare il cibo. Dopo che i confini interni del paese erano stati chiusi per limitare la diffusione del virus, molti agricoltori hanno raccontato di un aumento dei costi di trasporto dovuto soprattutto alla prepotenza della polizia: i produttori denunciano che, tra una regione e l’altra, le guardie alle frontiere spesso non permettono il passaggio della merce, se non dietro il pagamento di tangenti.

Quest’anno il World Food Programme (WFP), il programma delle Nazioni Unite che si occupa di combattere la fame nel mondo, ha incluso la Nigeria tra le nazioni ad alto rischio di insicurezza alimentare. Prima della pandemia, l’organizzazione stimava che 21,1 milioni di persone in Africa Occidentale avrebbero avuto difficoltà a procurarsi del cibo nell’estate del 2020. Con l’avvento della COVID-19 nel continente, il numero potrebbe più che raddoppiare a 57,6 milioni, soprattutto per l’aumento della disoccupazione causato dai lockdown nelle grandi città.

Le chiusure rischiano di avere un forte impatto anche sull’alimentazione dei bambini, che in molti casi possono contare su un solo pasto nutriente al giorno: quello distribuito a scuola. Per evitare un consistente aumento della malnutrizione infantile, durante il lockdown il WFP ha deciso di fornire assistenza tecnica al programma nazionale nigeriano per l’alimentazione scolastica, aiutandolo a raggiungere oltre nove milioni di bambini con pasti a domicilio adeguati.

Una misura di questo tipo aiuterà sia i bambini nelle grandi città, i cui genitori hanno perso il proprio reddito a causa delle restrizioni, sia quelli delle aree rurali, come i circa 10 milioni di bambini che frequentano le scuole islamiche nel nord del paese.
La parte meridionale della Nigeria è a maggioranza cristiana, mentre quella settentrionale, in cui un tempo si trovava uno dei più importanti califfati islamici dell’Africa, è a maggioranza musulmana. Le famiglie povere di religione islamica spesso mandano i propri figli a nord perché ricevano un’educazione di stampo religioso. Questi bambini sono detti almajirai. Quando il lockdown ha imposto la chiusura delle scuole, comprese quelle islamiche, circa 10 milioni di almajirai si sono trovati senza cibo né riparo. Alcuni di loro sono stati rimandati a casa nel Sud, diffondendo il virus dai focolai settentrionali ad altre zone del paese, mentre altri hanno iniziato a vivere in strada. I governi statali del Nord, destabilizzati da anni di attentati terroristici dell’organizzazione islamista Boko Haram e con scarsissime risorse per affrontare la pandemia, non sono stati in grado di occuparsi del problema, se non ricorrendo ad aiuti umanitari come quelli offerti dal WFP o da altre agenzie delle Nazioni Unite.

Nonostante l’allentamento delle misure restrittive, molte attività sono ancora ferme, lasciando milioni di persone senza lavoro né reddito. Secondo Elisabeth Byrs, portavoce del WFP, almeno 3,8 milioni di lavoratori avrebbero perso il proprio impiego a causa del lockdown. Il governo programma di terminare le restrizioni entro fine luglio, ma il capo della task force anti-coronavirus Boss Mustapha ha dichiarato che si stanno valutando nuove chiusure in alcune grandi città e aree rurali. Secondo il WFP, se le restrizioni dovessero prolungarsi ancora, il numero di persone che perderebbero il lavoro potrebbe salire a 13 milioni, che si andrebbero a sommare ai 20 milioni di nigeriani che erano già disoccupati prima dell’inizio della crisi sanitaria. Con questi numeri, il COVID-19 in Nigeria rischia di far crollare la già fragile economia del paese, che nel solo primo trimestre del 2020 si è contratta del 14,3 per cento.

Questo e gli altri articoli della sezione Il coronavirus in 26 paesi del mondo sono un progetto del workshop di giornalismo 2020 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.