In Cile pensavano di averla scampata, ma si erano sbagliati
L’impressione di una eccezionalità positiva del paese all’inizio del contagio è stata smentita quando il sistema politico e quello sanitario hanno mostrato i loro limiti
di Alice Nicolin
In un’intervista del 18 marzo data a CNN Chile, il presidente cileno Sebastián Piñera aveva detto che nel paese l’epidemia da coronavirus era stata contenuta in modo efficace e tempestivo – «Mucho mejor preparado que Italia» («Siamo stati molto più pronti dell’Italia») – e il suo commento sembrava confermato anche dai dati rassicuranti di aprile: il numero di contagi e morti era di molto inferiore rispetto ai vicini Brasile, Ecuador e Perù. Poi le cose sono cambiate.
Nelle settimane successive, infatti, la situazione è peggiorata rapidamente: il virus ha iniziato a diffondersi nelle zone più affollate e meno ricche dei grandi centri urbani come la capitale Santiago. Il governo è stato accusato di essersi mosso in ritardo e di non avere capito cosa stava succedendo, e il sistema sanitario, diviso tra pubblico e privato, si è rivelato inadeguato ad affrontare l’emergenza. A questo si è aggiunto anche il fatto che la classe politica ha mostrato di non capire le difficoltà del ceto medio, che oggi costituisce la parte più ampia della società cilena, e che si è sviluppato con la crescita economica degli ultimi dieci anni: ma è cresciuto privo di sicurezza sociale ed economica.
Il 18 marzo, il giorno dell’intervista di Piñera, il Cile sembrava pronto ad affrontare l’epidemia, o almeno così credeva il governo. Piñera sosteneva di avere adottato misure preventive in tempi poco sospetti: l’acquisto di respiratori già a gennaio, e l’allerta sanitaria annunciata ad inizio febbraio, avevano permesso al governo di arrivare preparati ai primi casi di marzo. Gli ospedali cileni erano stati in grado di trattare le persone che avevano contratto il virus, molte delle quali di ritorno da un viaggio in Europa.
In quella fase, di conseguenza, la maggior parte delle persone che avevano la Covid-19, la malattia provocata dal coronavirus, avevano fatto parte dei settori più ricchi della popolazione, erano giovani e avevano potuto accedere alle cure fornite dalle costose assicurazioni private cilene. Vivendo nella parte benestante delle città, in abitazioni spaziose, e potendo permettersi di continuare a lavorare da casa, la loro situazione sembrava sotto controllo e presto il contenimento e le restrizioni erano state revocate in molte regioni.
A maggio, però, il numero dei contagi è iniziato a salire, assieme a quello dei morti. L’epidemia ha cominciato a diffondersi anche nella parte più povera della popolazione cilena, cioè tra i disoccupati, gli abitanti delle zone più affollate delle grandi città e quelli con stipendi molto bassi o con lavori in nero. Come ha spiegato al Washington Post l’epidemiologa Ximena Aguilera, «le persone nei quartieri più poveri non sono semplicemente svantaggiate dal punto di vista economico, ci sono una varietà di fattori che le rendono più vulnerabili al virus. Il sovraffollamento complica le cose, mentre i fattori nutrizionali e di stile di vita contribuiscono ad una maggiore incidenza di malattie come l’ipertensione e il diabete». La diffusione della malattia è stata inevitabile per tutti coloro che non avevano modo di vivere in stanze separate e ben arieggiate. Per molti restare in casa non poteva essere un’opzione quando l’unico guadagno è vendere le proprie cose al mercato o cercare lavoro giorno per giorno.
In Cile avere uno stipendio basso significa anche non poter accedere alle assicurazioni sanitarie private e doversi affidare al servizio pubblico. I primi casi di Covid-19 erano stati contenuti proprio grazie all’efficienza della sanità privata o alla possibilità di accedere alle terapie più costose offerte dal sistema pubblico. Ma è stato nel momento in cui la malattia si è diffusa tra chi non poteva accedere a trattamenti adeguati che l’emergenza è diventata più difficile da controllare. Il Washington Post ha scritto che il tasso di letalità negli ospedali pubblici di Santiago è stato il doppio rispetto a quello delle cliniche private più ricche.
Il dibattito sulle profonde differenze sociali ed economiche che caratterizzano il Cile era già diventato centrale lo scorso ottobre con le proteste di lavoratori e studenti, iniziate a causa dell’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana e poi proseguite con critiche più ampie al governo e con la richiesta di adottare una nuova Costituzione.
Le proteste, che hanno paralizzato un pezzo di Santiago per mesi, si erano interrotte solo nelle prime settimane di marzo, con la dichiarazione dello stato di emergenza da parte del governo: i militari erano stati mandati nelle strade della capitale, era stato indetto il coprifuoco ed erano state sospese le attività commerciali e le lezioni di scuole e università. Un’ulteriore conseguenza del coronavirus è stato il rinvio del referendum del 26 aprile che era stato ottenuto dai manifestanti per chiedere di scrivere una nuova Costituzione rispetto a quella attuale ereditata dal periodo della dittatura di Augusto Pinochet, al potere fino al 1990. Il referendum è stato spostato al 26 ottobre.
Questo e gli altri articoli della sezione Il coronavirus in 26 paesi del mondo sono un progetto del workshop di giornalismo 2020 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.