La repressione dei medici in Egitto durante il coronavirus
Il regime del presidente al Sisi, che da anni governa il paese in maniera autoritaria, ha fatto arrestare diversi operatori sanitari che mettevano in discussione l’operato del governo
di Alessandra De Poli
Fin dall’inizio dell’epidemia da coronavirus in Egitto, a fine febbraio, almeno dieci medici e sei giornalisti sono stati arrestati per aver criticato la gestione dell’emergenza sanitaria da parte del governo guidato dal presidente Abdel Fattah al Sisi. Da quando aveva preso il potere, nel 2013, al Sisi aveva arrestato giornalisti, attivisti e oppositori politici, ma negli ultimi mesi la repressione si è allargata anche al personale sanitario che si sia lamentato per la mancanza di dispositivi di protezione individuale o abbia contestato i dati ufficiali sul contagio diffusi dal governo.
Nel mondo arabo l’Egitto è il paese con il più alto numero assoluto di morti, più di 3.500. Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, i casi di COVID-19 finora confermati sono più di 80mila. Associated Press ha intervistato alcuni medici che hanno voluto rimanere anonimi per paura di subire ritorsioni. Uno di loro ha detto: «Ogni giorno che vado al lavoro metto a rischio me e la mia famiglia. I miei colleghi vengono arrestati per mandarci un messaggio. Non vedo nessuna luce in fondo al tunnel». A diversi operatori sanitari è stato intimato di evitare critiche al governo, mentre a fine marzo una giornalista del Guardian è stata costretta a lasciare il paese dopo aver scritto di uno studio scientifico che spiegava come il numero di contagi in Egitto fosse molto più elevato di quello mostrato nei dati ufficiali.
Associated Press ha anche ottenuto alcune registrazioni e messaggi di operatori nel settore della sanità, tra cui la testimonianza di un funzionario e quella di un direttore di ospedale. Nella prima si sente il funzionario dire: «Anche se un medico sta morendo, deve continuare a lavorare … o sarà punito severamente». Nella seconda, rivolta al personale di un ospedale, il direttore definisce «traditori» i medici che non si presentano al lavoro, e aggiunge che il tema dovrebbe essere «trattato come una questione di sicurezza nazionale… e sapete come va a finire in Egitto».
Hany Bakr, un oculista del Cairo, è stato arrestato con l’accusa di terrorismo. Su Facebook aveva criticato il governo per avere inviato materiale sanitario all’Italia e alla Cina, mentre i medici egiziani sarebbero totalmente privi di dispositivi di protezione individuale. Hany Bakr si trova ancora in carcere. Alaa Shaaban Hamida, medica ventiseienne incinta di tre mesi, è stata accusata di «essersi unita a un gruppo terroristico». Aveva prestato il proprio cellulare a un’infermiera che aveva chiamato il numero dedicato al coronavirus del ministero della Salute per informare di un nuovo caso positivo nell’ospedale. Secondo le regole, Hamida avrebbe dovuto segnalare il caso al direttore sanitario, il quale – vista la violazione delle norme – ha poi avvisato i servizi segreti egiziani dell’irregolarità. Anche Hamida si trova ancora in carcere.
Un altro medico, Mohamed Moataz El-Fawal, docente universitario di radiologia nonché tesoriere del sindacato dei medici, è stato arrestato per aver chiesto su Facebook che il primo ministro Mustafa Madbouly si scusasse per alcuni suoi commenti che sembravano dare la colpa dell’elevato numero di contagi al personale sanitario. Il 23 giugno, in un discorso televisivo, Madbouly aveva criticato i medici per la loro «negligenza e cattiva gestione», e li aveva accusati di mettere a repentaglio la salute dei cittadini. Il 27 giugno El-Fawal è stato messo agli arresti con le accuse di abuso dei social media, diffusione di notizie false e coinvolgimento in un’organizzazione terroristica.
Il sindacato dei medici egiziani è intervenuto per difendere i diritti dei medici impegnati nel contenimento del contagio. Il mese scorso il sindacato aveva scritto una lettera alle autorità giudiziarie per chiedere il rilascio di cinque medici detenuti per aver espresso le loro opinioni sulla gestione della pandemia da parte del governo. Per lo stesso giorno il sindacato aveva organizzato una conferenza stampa al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sui sacrifici dei medici e discutere della carenza di personale e di adeguati dispositivi di protezione individuale contro il virus. Tuttavia, prima che l’evento potesse iniziare, le forze dell’ordine avevano circondato la sede del sindacato e avevano disperso tutti i membri, mentre un addetto alle comunicazioni che aveva promosso l’incontro era stato interrogato per ore dagli agenti prima di essere rilasciato.
La limitata libertà di criticare il governo in Egitto non è una cosa nuova. Nel luglio 2013, Abdel Fattah al Sisi guidò un colpo di stato contro il presidente Mohamed Morsi, il primo a venire eletto democraticamente nel paese ma che non era riuscito a governarlo in maniera convincente e rassicurante, creando le condizioni per un esteso consenso al colpo di stato. L’arrivo al potere di al Sisi segnò un netto deterioramento dei diritti umani in Egitto.
Per citare un caso recente, nel settembre 2019 Alaa Abdel Fatah, noto attivista e blogger, era stato nuovamente arrestato – non è chiaro con quali accuse – dopo aver già trascorso cinque anni in prigione. A marzo le visite dei parenti ai detenuti erano state sospese a causa del coronavirus, ma la madre e le sorelle di Alaa avevano continuato ad andare al carcere di Tora al Cairo per avere sue notizie. Una delle sorelle era stata arrestata con le accuse di istigazione al terrorismo e uso improprio dei social media, le stesse formalizzate dalle autorità contro tutti gli oppositori, dai medici ai giornalisti.
Secondo Amy Hawthorne, esperta di Egitto del think tank Project on Middle East Democracy, con la pandemia la situazione di repressione si è aggravata perché le autorità egiziane hanno voluto «far vedere che tutto sta andando bene, che sono in controllo». Oggi in prigione si trova anche Patrick George Zaki, uno studente egiziano arrestato al Cairo in circostanze non ancora del tutto chiare, così come non è ancora chiaro cosa sia successo allo studente italiano Giulio Regeni, scomparso nel 2016 mentre stava lavorando alla sua tesi di dottorato sui sindacati in Egitto.
Questo e gli altri articoli della sezione Il coronavirus in 26 paesi del mondo sono un progetto del workshop di giornalismo 2020 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.