La lettera contro la “cancel culture”
L'hanno firmata 150 scrittori, accademici e artisti, lamentandosi delle derive del cosiddetto politicamente corretto: è un dibattito lungo e complesso
Da un paio di giorni negli Stati Uniti è in corso un dibattito causato da una lettera aperta pubblicata da molti famosi scrittori, giornalisti, accademici e attivisti sulla rivista Harper’s per criticare la cosiddetta “cancel culture”. È un’espressione ormai diffusa negli Stati Uniti che indica la tendenza – accentuatasi molto negli ultimi anni sui social network, soprattutto nelle persone di sinistra, nei giovani e tra gli attivisti anti-razzisti – ad attaccare collettivamente persone famose di cui emergono comportamenti, idee o dichiarazioni ritenute sbagliate e offensive, indipendentemente dall’entità e dal fatto che siano attuali o molto antiche, chiedendo punizioni immediate come il loro licenziamento o boicottaggio.
I firmatari della lettera sono oltre 150, e comprendono scrittori come Martin Amis, J.K. Rowling, Margaret Atwood e Salman Rushdie, giornalisti e opinionisti come David Brooks, Anne Applebaum e George Packer, accademici come Noam Chomsky e Francis Fukuyama, la storica attivista femminista Gloria Steinem e personaggi provenienti da altri ambienti, come lo scacchista Garry Kasparov e il jazzista Wynton Marsalis. La lettera dice:
Le nostre istituzioni culturali sono sotto processo. Le grandi proteste contro il razzismo e per la giustizia sociale stanno portando avanti sacrosante richieste di riforma della polizia, insieme a più ampie rivendicazioni per maggiori equità e inclusività nella nostra società, compresa l’università, il giornalismo, la filantropia e le arti. Ma questa necessaria presa di coscienza ha anche intensificato una nuova serie di atteggiamenti moralisti e impegni politici che tendono a indebolire il dibattito pubblico e la tolleranza per le differenze, a favore del conformismo ideologico. Mentre ci rallegriamo per il primo sviluppo, ci pronunciamo contro il secondo.
Le forze illiberali si stanno rafforzando in tutto il mondo e hanno un alleato potente in Donald Trump, che rappresenta una vera minaccia per la democrazia. Ma non bisogna permettere che la resistenza si irrigidisca intorno a un suo tipo di dogmatismo e coercizione, che i populisti di destra stanno già sfruttando. L’inclusione democratica che vogliamo si può raggiungere solo denunciando il clima intollerante che si è creato da entrambe le parti.
Lo scambio libero di informazioni e idee, la linfa vitale di una società liberale, viene soffocato ogni giorno di più. Se abbiamo imparato ad aspettarcelo dalla destra radicale, la tendenza alla censura si sta diffondendo anche nella nostra cultura: un’intolleranza per le opinioni diverse, l’abitudine alla gogna pubblica e all’ostracismo, e la tendenza a risolvere complesse questioni politiche con una vincolante certezza morale.
Noi sosteniamo l’importanza di una dialettica e di un contraddittorio espressi con forza e anche taglienti, per tutti. Ma è diventato troppo normale sentire richieste di tempestive e dure punizioni in risposta a quelli che vengono percepiti come sbagli di parola o di pensiero. Ed è ancora più preoccupante che i leader delle nostre istituzioni, nel tentativo preoccupato di contenere i danni, decidano punizioni frettolose e sproporzionate invece di piani di riforma più ponderati. Ci sono stati redattori licenziati per aver pubblicato articoli controversi, libri ritirati perché non abbastanza “autentici”; giornalisti a cui è stato vietato scrivere di certi temi; professori che subiscono indagini per aver citato certe opere letterarie a lezione; ricercatori licenziati per aver condiviso uno studio accademico pubblicato su una ricerca scientifica; dirigenti e manager fatti fuori per quelli che a volte sono solo goffi errori.
Qualunque siano le circostanze di ciascun caso, il risultato è che i limiti di quello che si può dire senza timore di ritorsioni si sono assottigliati. Stiamo già pagandone il prezzo, in termini di minore propensione al rischio tra gli scrittori, gli artisti e i giornalisti che sono preoccupati di perdere il lavoro se si allontanano dal consenso generale, o anche solo se non dimostrano sufficiente entusiasmo nel dirsi d’accordo.
Questa atmosfera opprimente finirà per danneggiare le cause più importanti dei nostri tempi. I limiti al dibattito, che dipendano da un governo repressivo o da una società intollerante, finiscono ugualmente per fare del male di più a chi non ha potere, e rendono tutti meno capaci di partecipare alla democrazia. Il modo di sconfiggere le idee sbagliate è mettendole in luce, discutendone, criticandole e convincendo gli altri, non cercando di metterle a tacere. Rifiutiamo di dover scegliere tra giustizia e libertà, che non possono esistere l’una senza l’altra. Come scrittori, abbiamo bisogno di una cultura che lasci spazio alla sperimentazione, all’assunzione di rischi, e anche agli errori. Dobbiamo preservare la possibilità di essere in disaccordo in buona fede, senza timore di catastrofiche conseguenze professionali. Se non difendiamo quello da cui dipende il nostro lavoro, non possiamo aspettarci che lo faccia il pubblico o lo stato.
Le posizioni dei firmatari
Il dibattito nato intorno alla lettera non è nuovo: anche se è diventato sempre più frequente e centrale nella cultura statunitense negli ultimi anni, esiste da molto prima che i social network ne diventassero parte integrante, trasformando il modo in cui le persone – e spesso anche gli intellettuali – esprimono le loro opinioni e soprattutto rispondono alle opinioni altrui.
A voler sintetizzare tantissimo una cosa lunga e complessa, i firmatari della lettera sostengono che la nuova sensibilità collettiva su quali parole, comportamenti e idee siano offensive e più o meno esplicitamente razziste, sessiste e in generale discriminatorie abbia avuto molti effetti positivi, ma anche altri che non fanno bene alla salute del dibattito pubblico. Essenzialmente, un conformismo delle idee che porta le persone che di lavoro scrivono, dirigono film o fanno arte ad adeguarsi a questo presunto pensiero collettivo: il rischio di essere “cancellati”, cioè licenziati, oppure boicottati in massa, se dicono qualcosa di non allineato è diventato troppo alto, sostengono i firmatari della lettera. E riguarda anche i casi di cose dette o fatte in passato, anche quando all’epoca era considerato culturalmente e socialmente più accettabile di oggi.
Spesso chi sostiene questa posizione porta l’esempio di Woody Allen, notoriamente accusato dalla sua ex compagna Mia Farrow di aver violentato la figlia adottiva Dylan quando quest’ultima aveva 7 anni. Sull’accusa furono condotte varie indagini, ma non fu mai provato niente: e le circostanze in cui fu avanzata e portata avanti, secondo molti, la rendono debole e poco credibile. Se a lungo l’accusa non ebbe grandi conseguenze, negli ultimi anni ha fatto sì, per esempio, che Amazon e la casa editrice Hachette rescindessero i propri contratti con Allen, perché le pressioni pubbliche erano diventate molto più forti pur in mancanza di elementi nuovi.
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Un altro caso celebre era stato quello del comico Kevin Hart, a cui fu tolta la conduzione della cerimonia degli Oscar del 2018 per via di alcuni tweet contenenti battute omofobe che risalivano al 2010 e al 2011. Più recentemente, un altro esempio di persona estesamente criticata e attaccata sui social network per via di alcune opinioni ritenute discriminatorie è stata proprio J.K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter e tra i firmatari della lettera, che da tempo sostiene posizioni controverse sul concetto di sesso e di identità di genere e sui diritti delle persone trans.
Soltanto il mese scorso, invece, il responsabile degli editoriali del New York Times James Bennet si è dimesso dopo aver ricevuto tantissime critiche per aver pubblicato nella sezione delle opinioni un articolo di un senatore Repubblicano che auspicava l’intervento dell’esercito per reprimere le proteste seguite alla morte di George Floyd.
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Cosa dice chi l’ha criticata
Sono in tanti però a non essere d’accordo con la lettera. L’obiezione principale che viene mossa alle posizioni espresse dai firmatari è che si ergano a difensori della libertà di espressione quando in realtà vogliono mantenere una forma radicata e subdola di potere, che esclude le minoranze. Non a caso, dice spesso chi sostiene questa posizione, chi si lamenta del restringimento dei confini della libertà di espressione è soprattutto «maschio, bianco e anziano»: un’espressione ormai usatissima online per identificare una categoria che ha sempre occupato una posizione privilegiata nella cultura occidentale, e che adesso – dicono – si sente minacciata.
A lot of debates that sell themselves as being about free speech are actually about power. And there's *a lot* of power in being able to claim, and hold, the mantle of free speech defender.
— Ezra Klein (@ezraklein) July 8, 2020
Quest’obiezione, almeno nel caso della lettera, è comunque meno pertinente, visto che ci sono molte donne, giovani, persone non bianche e non eterosessuali. Tra i firmatari, diversi hanno poi detto pubblicamente di essersi pentiti di aver aderito, dopo aver scoperto i nomi di alcuni altri sostenitori che non stimano. Malcolm Gladwell, giornalista del New Yorker, ha obiettato che essere insieme a gente con cui è in disaccordo era proprio il senso della lettera.
I signed the Harpers letter because there were lots of people who also signed the Harpers letter whose views I disagreed with. I thought that was the point of the Harpers letter. https://t.co/ozFsAmXq9R
— Malcolm Gladwell (@Gladwell) July 8, 2020
I temi di cui parla la lettera sono strettamente collegati alla questione delle rivendicazioni identitarie di categorie di persone accomunate da un passato di discriminazioni e soprusi: le donne, gli afroamericani, le persone omosessuali, quelle transgender, fino ad altre categorie che sono entrate nel dibattito da meno tempo, come le persone non binarie o quelle la cui immigrazione negli Stati Uniti è stata più recente, come gli asiatici. Categorie che, in misura diversa, sono state a lungo escluse dalle posizioni di potere, anche nella cultura e nell’esposizione delle loro storie e opinioni, e che adesso rivendicano spazi e attenzioni che ancora mancano.
È un’altra obiezione che viene fatta spesso a chi sostiene le posizioni dei firmatari della lettera: nonostante tutto, queste categorie e queste minoranze hanno ancora scarso accesso alle posizioni di potere e prestigio. Cosa che rende ancora meno credibili le lamentele sul restringimento dei confini della libertà di espressione, da parte di scrittori affermati ed editorialisti dei principali giornali americani. La diffusione e le attenzioni riservate alla lettera di Harper’s ne sarebbero una dimostrazione. Il problema, secondo questo punto di vista, è che chi ha finora potuto sostenere senza obiezioni le proprie opinioni adesso non tollera che ci siano sempre più persone che le criticano pubblicamente.
Late to the party but the dumbest thing about that Harper's Letter is framing online disagreement and academic squabbles as the quintessential free speech issue rn at a time when cops are beating and jailing protesters. Militarized police are a free speech issue.
— Kate Willett (@katewillett) July 8, 2020
Chi riguarda davvero questo dibattito
Occorre però tenere ben presente una cosa: l’intero dibattito riguarda una minoranza delle persone, quelle che leggono i giornali o che seguono le discussioni di attualità culturale sui social network. Per una larghissima fetta della popolazione, ricordano in tanti, la presunta “ossessione per il politicamente corretto” non esiste: le opinioni e le azioni razziste e sessiste sono più che tollerate e fanno parte della quotidianità per milioni e milioni di persone. Per un gran pezzo di mondo, compreso per un gran pezzo di Stati Uniti, questi atteggiamenti e queste opinioni offensivi e discriminatori non sono affatto minacciati da una presunta ipersensibilità progressista collettiva.
Su questa consapevolezza è nato un altro filone di opinioni sulla lettera di Harper’s, più sfumato e di compromesso. I firmatari, hanno scritto diversi commentatori, hanno argomenti giusti e condivisibili, specialmente sulla tendenza sempre più marcata a reagire con gogne pubbliche a quelle che nascono in realtà come opinioni pacifiche e benintenzionate, magari espresse male. Ma, hanno scritto in tanti, la minaccia rappresentata dalla “cancel culture” è secondaria rispetto ai problemi concreti e quotidiani causati a tantissime persone dal razzismo sistemico, dal sessismo, dall’omofobia o dalla transfobia.
In a world with real problems, who even knows what this is actually about? https://t.co/QQc6IVyS3f
— Joel D. Anderson 🆓 (@byjoelanderson) July 7, 2020
Questo dibattito, in ogni caso, è molto statunitense. In Italia episodi associati alla “cancel culture” sono stati sempre più comuni negli ultimi anni: ma hanno coinvolto quasi sempre un esiguo numero di persone, irrilevante rispetto agli italiani nel loro complesso. Quelle che negli Stati Uniti vengono descritte come dure ritorsioni e ripercussioni per “errori goffi”, poi, in Italia sono ben più rare.
Parlando di questi temi, c’è chi fa presente che certe discussioni, che possono sembrare partecipatissime a chi segue e commenta l’attualità su Twitter, nella pratica nascono e finiscono senza arrivare alla stragrande maggioranza delle persone, negli Stati Uniti come in Italia: ma possono avere conseguenze significative per le singole persone che coinvolgono. La sensibilità collettiva in Italia su temi come il sessismo e il razzismo è molto più acerba rispetto agli Stati Uniti. Ma naturalmente i numeri di persone coinvolte non sono un fattore determinante in un dibattito che riguarda gli ambiti della cultura e dello sviluppo del dibattito, che sono di per sé sempre occupati da minoranze e le cui evoluzioni e fertilità possono dipendere anche dalle idee di pochi individui, se lasciati liberi di esprimerle.