Anche Beck ha 50 anni
Una buona scusa per riascoltare le sue otto canzoni migliori, scelte dal peraltro direttore Luca Sofri, a partire da quella che sanno tutti
Oggi Beck compie cinquant’anni: qui abbiamo raccolto otto canzoni scelte dal peraltro direttore del Post Luca Sofri, nel libro Playlist, la musica è cambiata.
Si chiama Beck Hansen: suo padre è musicista, la madre frequentava la Factory di Andy Warhol. Anche lui era un po’ stranetto e insieme a un’insana passione per i collage, coltivò il suo talento musicale vivendo per le strade di New York e suonando nei club. Poi incise “Loser” e venne nominato genio. Dopo, non riuscì più a togliersi la definizione di dosso neanche quando fa musica inascoltabile.
Loser
(EP, 1991, Mellow Gold, 1994)
Voleva fare il rap, e non gli veniva, racconta lui. «Sono il peggior rapper del mondo, uno sfigato» si disse durante un tentativo in questo senso: “a loser”. E così nacque la canzone, che non gli sembrò neanche granché, quando l’ebbero messa giù assieme al produttore Carl Stephenson. Invece divenne un monumento, un inno, e l’annuncio di cose nuove, col suo misto di blues e rap e il refrain assassino. Un bum bum bum.
Devil’s haircut
(Odelay, 1996)
«Di che parla questa canzone?». Se lo chiese persino lui, una volta in tv. Un gran casino di immagini sbilenche e assurde. Un’altra volta la definì «una metafora piuttosto facile del male che nasce dalla vanità». Il riff di chitarra è preso da “I can only give you everything” dei Them di Van Morrison.
Where it’s at
(Odelay, 1996)
Campionamenti di mille cose (tra cui il parlato di un vecchio corso di educazione sessuale per adolescenti) intorno a un organo che pare i Doors e al racconto di un party metropolitano.
Tropicalia
(Mutations, 1998)
Una cosa caraibica e vintage, racconto di luoghi caldi e con le palme.
Cold brains
(Mutations, 1998)
Ballatona, abbastanza tradizionale nella costruzione e con tanto di armonica, non fosse per fronzoli e cotillons sonori assai più moderni appiccicati qua e là.
The golden age
(Sea change, 2002)
Un giorno Beck si svegliò convinto di essere Nick Drake sbarcato su una spiaggia della California. La parte gli venne piuttosto bene: un disco acustico di ballate folk-rock ortodosse e testi sentimentali e semplici. I fans furono piuttosto perplessi: non si ballava e non c’erano disordini creativi. Il resto del mondo la prese meglio, e il disco fu il suo maggior successo di vendite. Si apriva con “The golden age” e l’arrangiamento degli archi era del padre di Beck, David Campbell.
Lost cause
(Sea change, 2002)
Secondo quel che si dice, Winona Ryder ha avuto storie con Johnny Depp, Matt Damon, Daniel DayLewis, David Duchovny, Val Kilmer, Chris Noth, Jimmy Fallon, Christian Slater, Conor Oberst (Bright Eyes), Ryan Adams, Evan Dando (Lemonheads), Adam Duritz (Counting Crows), Dave Pirner (Soul Asylum), Franz Hemingbeck, Dave Grohl (Nirvana), Page Hamilton (Helmet), Jason Kay, Rhett Miller e Pete Yorn. E Beck, pure. Il testo di “Lost cause” induce quindi a dei sospetti sulla destinataria, causa persa:
“There’s too many people you used to know
They see you coming they see you go
They know your secrets and you know theirs
This town is crazy; nobody cares”
Girl
(Guero, 2005)
È uno di quei casi («lo sanno fare benissimo i Pixies» dice Beck) in cui credi di ascoltare una canzone allegra e solare e poi fai attenzione alle parole e scopri che dice delle cose terribili tipo “le strapperò gli occhi, la farò morire”. Ma ormai il ritornello ti è entrato in testa, e la canticchi senza farci caso, anche quando è venuta a pranzo tua zia di Manchester.