Quanto è letale il coronavirus?

Da mesi i ricercatori provano a calcolare il rapporto tra contagi e decessi: continua a essere complicato, ma l'OMS ora ha un dato

(Manuel Velasquez/Getty Images)
(Manuel Velasquez/Getty Images)

Dall’inizio della pandemia sono stati rilevati circa 11,5 milioni di casi positivi al coronavirus, e sono state registrate oltre 500mila morti dovute al COVID-19. Come è ormai chiaro da tempo, questi dati sono parziali, a causa delle difficoltà nel censire tutti i contagi e nel ricondurre tutti i decessi agli effetti del coronavirus: molte persone vengono contagiate ma non vengono mai testate, molte altre nemmeno si accorgono di essere state contagiate. Per questo motivo epidemiologi e ricercatori faticano fin dall’inizio a stabilire quale sia l’effettiva letalità della COVID-19 – cioè quante persone muoiano sul totale delle persone contagiate – anche se negli ultimi mesi l’accresciuta quantità di dati disponibili ha fornito qualche indicazione in più.

Comprendere quanto sia letale una malattia non serve solamente per stimare il suo potenziale impatto sulla popolazione, ma anche per organizzare meglio gli interventi da parte delle istituzioni sanitarie. Nei paesi più poveri e in via di sviluppo, per esempio, un basso tasso di letalità può essere una base importante per decidere quante risorse investire nella prevenzione della COVID-19, senza dirottare troppi fondi da iniziative per contenere la diffusione di altre malattie infettive che potrebbero avere una letalità maggiore, come per esempio il morbillo.

Il tasso di letalità (CFR, case fatality rate), è bene ricordarlo, indica attraverso un dato percentuale la quantità di persone che muoiono a causa di una malattia rispetto al totale dei malati. Il dato è quindi diverso dal tasso di mortalità, che indica invece quante persone sono morte a causa di una malattia sul totale della popolazione, comprendente quindi sia le persone malate sia quelle sane.

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Il CFR può fornire informazioni importanti, ma essendo basato sui dati rilevati ha il difetto di non riflettere efficacemente la realtà, perché come abbiamo visto è impossibile rilevare il numero effettivo di persone infette in una popolazione, specialmente nelle prime fasi di un’epidemia. Per questo viene spesso utilizzato un tasso di letalità lievemente diverso e chiamato IFR (“infection fatality rate”), che prova a stimare su base statistica quanto sia effettivamente ampia la base delle persone infette, comprendendo gli asintomatici che non vengono sottoposti a controlli e le persone malate cui però non viene diagnosticata la presenza del coronavirus tramite un test con tampone.

La settimana scorsa un gruppo di oltre 1.300 esperti ha partecipato per un paio di giorni a una conferenza online tenuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e ha concluso che l’IFR globale della COVID-19 sia intorno allo 0,6 per cento. È la prima stima ufficiale completa fatta dall’OMS ed è basata sui dati inviati dalle istituzioni sanitarie di diversi paesi, utilizzati poi insieme ad altri dati raccolti da diverse organizzazioni e centri di ricerca.

In precedenza il dato più condiviso era molto simile all’attuale: era stato calcolato un IFR dello 0,64 per cento attraverso un’analisi di diverse ricerche condotte da istituzioni e organizzazioni sanitarie, stimato poi su base statistica da un gruppo di ricercatori in Australia. Non tutti erano però convinti dell’affidabilità del tasso indicato, perché l’analisi si era comunque basata su studi molto diversi tra loro e che avevano previsto modalità di raccolta dei dati non sempre comparabili.

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La stima dello 0,6 per cento fornita dall’OMS è invece basata su una serie più ampia di dati che ha privilegiato i risultati dei test sierologici, cioè sulla ricerca degli anticorpi contro il coronavirus nel sangue delle persone con infezione in corso o da poco superata e guarita. Il problema è che anche in questo caso la base di dati è inevitabilmente parziale, perché non comprende comunque tutti gli infetti e farne una stima su base statistica è complicato, considerata anche l’alta variabilità della letalità riscontrata tra paesi diversi.

In Italia il tasso di letalità (CFR) è stimato al 14 per cento dall’Istituto Superiore di Sanità, mentre in Belgio è al 16 per cento e in Islanda è a meno dell’1 per cento. Sul dato incidono numerosi fattori, a cominciare dalla composizione della popolazione e dalla quantità di individui a rischio. In Italia la popolazione è mediamente più anziana e questo incide sul numero di persone che rischiano le complicazioni della COVID-19, che in alcuni casi si rivelano letali. Ma sappiamo anche che – soprattutto nella fase più intensa dell’epidemia – solo una minima parte delle persone contagiate è stata effettivamente testata.

Dall’inizio dell’epidemia il CFR globale è variato sicuramente a causa della progressiva diffusione del coronavirus in paesi con diverse caratteristiche della popolazione, condizioni sociali e capacità dei sistemi sanitari. Secondo diversi esperti potrebbe ancora variare sensibilmente, per esempio se l’epidemia continuasse a diffondersi in paesi come India, Brasile, Messico e Nigeria, dove l’assistenza sanitaria non è comparabile con quella di buona parte dei paesi occidentali e più ricchi, dove il coronavirus si è diffuso nella prima metà dell’anno dopo i casi riscontrati in Cina.

La mancanza di trattamenti sanitari adeguati potrebbero fare aumentare sensibilmente il tasso di letalità, e le cose potrebbero peggiorare nel caso di una seconda ondata anche nei paesi più ricchi. Al momento non è possibile prevedere se e come il coronavirus tornerà a diffondersi nelle nazioni dove l’emergenza sanitaria dei mesi scorsi è ormai rientrata, ma diversi esperti non escludono che possa esserci una nuova fase intensa con l’arrivo della stagione fredda, e in concomitanza con la diffusione della normale influenza stagionale. La combinazione di questi fattori potrebbe causare un nuovo aumento dei casi positivi anche nei paesi dove ora la situazione appare relativamente sotto controllo, con un aumento del tasso di letalità.