In Giappone il keirin è una cosa seria
Se nel resto del mondo è una specialità del ciclismo su pista, da quelle parti è molto di più: ci sono un enorme giro di scommesse e rigidissime accademie per gli atleti
Il keirin è una specialità del ciclismo su pista, nata in Giappone nel 1948 e diventata dal 2000 disciplina olimpica. È quella che si fa notare più di altre perché per un po’ i ciclisti stanno in scia di un altro mezzo (a volte motorizzato, ma non sempre) che a un certo punto si sposta, lasciando i ciclisti a disputarsi la volata verso l’arrivo. In gran parte del mondo il keirin è quindi una nicchia del ciclismo su pista, che è a sua volta una nicchia del ciclismo, che a sua volta non è di certo il calcio. Pochi veri appassionati, quindi, si interessano particolarmente di keirin: per gli altri è al massimo una di quelle cose da guardare ogni quattro anni (stavolta cinque). In Giappone, invece, il keirin è tutta un’altra storia.
Prima di tutto, bisogna dire che in passato il ciclismo su pista era molto popolare in gran parte del mondo, in certi casi ancora più di quello su strada. Per buona parte del Novecento chi correva su strada correva spesso anche su pista, magari partecipando alle popolari Sei Giorni, per esempio quella di Milano, al velodromo Vigorelli, e già alla fine dell’Ottocento al Madison Square Garden di New York si correva la madison, che ancora oggi è una delle discipline del ciclismo su pista.
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Il ciclismo piaceva anche in Giappone e nel 1948, dopo la Seconda guerra mondiale e le terribili condizioni in cui si trovava il paese, la federazione ciclistica giapponese inventò il keirin, il cui nome significa più o meno “ruote in competizione”. Alla base dell’invenzione c’erano due motivi principali: creare un nuovo mercato per i tanti produttori di biciclette del paese e raccogliere soldi grazie alle scommesse sulle gare. Si sapeva che ne sarebbero state fatte tante, perché su tutti gli altri sport era vietato scommettere.
Il keirin ebbe un rapido e notevole successo e si diffuse anche nel resto del mondo come una delle tante specialità del ciclismo su pista regolate dall’UCI, l’Unione ciclistica internazionale. In Giappone nei decenni ha mantenuto una grande popolarità e una serie di regole diverse da quelle in vigore nel resto del mondo. Ancora oggi, in Giappone, ci sono migliaia di ciclisti che praticano keirin tutto l’anno: è il loro lavoro, non fanno altri tipi di corse ciclistiche e in molti casi nemmeno si curano di quello che è il keirin nel resto del mondo.
La più evidente differenza tra il keirin giapponese e quello mondiale riguarda le piste dei velodromi, che in Giappone sono di cemento e altrove quasi sempre di legno. Un’altra, di cui ci si accorge piuttosto rapidamente, riguarda il veicolo che sta davanti a tutti i concorrenti e il suo tipo di propulsione: nelle competizioni mondiali è almeno in parte motorizzato (e spesso elettrico); in Giappone è una normale bicicletta guidata da un normale ciclista che però non partecipa alla gara. La sua funzione è mettersi davanti ai ciclisti in gara – che nel keirin giapponese sono nove – e pedalare a ritmo sempre più sostenuto (in genere dai 30 fino ai 50 chilometri orari) così che gli altri possano seguirlo facendo notevolmente meno fatica. Gli altri, anzi, devono seguirlo. Il ciclista davanti si può superare solo quando, ad alcune centinaia di metri dall’arrivo, si sposta. A quel punto liberi tutti per la volata finale, in cui i migliori arrivano anche a una velocità di oltre 70 chilometri orari. Una gara di keirin giapponese è fatta così:
Per chi se lo stia chiedendo: sì, le cadute sono possibili e in Giappone, in cui i contatti tra corridori non sono per niente vietati (come è invece nel resto del mondo), sono anche relativamente frequenti, a volte con conseguenti vincitori “alla Steven Bradbury“.
Un’altra grande differenza è che, in Giappone, esiste un’apposita scuola necessaria per diventare un atleta di keirin. Si trova vicino a Shuzenji – nel centro del paese, con una bella vista sul monte Fuji – ed è gestita dalla JKA, l’associazione nazionale di keirin. Come ha spiegato di recente BBC, solo un richiedente su dieci viene ammesso, e ovviamente non tutti gli ammessi riescono poi a praticare keirin a tempo pieno, guadagnandoci da vivere. Tra i più o meno 70 allievi ammessi ogni anno, non tutti sono giovani e non tutti sono ciclisti. Può succedere che tra gli ammessi ci siano persone sopra i trent’anni, magari con un passato in sport diversi dal ciclismo, che però dimostrano evidentemente di sapersela cavare bene.
L’accademia è un posto «idilliaco», ha scritto BBC; ma ricorda molto un’accademia militare. Gli studenti si svegliano sempre alle 6.40 e non sono mai liberi prima delle 10 di sera. Tutto questo per sei giorni alla settimana, 11 mesi l’anno. Le giornate degli studenti – tutti in divisa e con i capelli tagliati corti – si dividono tra allenamenti fisici e sessioni teoriche e pratiche relative al keirin e a tutto quello che serve per costruire, riparare e tenere in buono stato una bicicletta. Non sono ammessi gli smartphone e i contatti con l’esterno sono limitati a una telefonata a settimana per studente, da un telefono a gettoni. Gli studenti sono tutti maschi (il keirin femminile esiste da qualche anno ma non è particolarmente popolare) e quasi tutti giapponesi (gli stranieri – i gaijin – sono ammessi solo di rado).
I migliori studenti dell’accademia possono diventare atleti e provare con il tempo a salire i diversi livelli del keirin (il livello di ogni atleta si può capire in base a colori e segni sui rispettivi pantaloncini) ma non è semplicissimo. Intanto perché molti corrono fino a 50 anni, a volte quasi fino a 60; e poi perché, per come funzionano le gare, capita spesso che gli atleti più giovani di una certa regione del paese finiscano per aiutare (in base a una serie di tattiche) gli atleti più anziani di quella stessa regione. Non ci sono vere e proprie squadre e in teoria ognuno corre per sé, ma è una sorta di regola non scritta.
Le lezioni dell’accademia insegnano anche meccanica ciclistica, perché una volta ammessi alle gare della JKA e entrati nei velodromi gli atleti devono cavarsela da soli. Nel keirin giapponese, infatti, non ci sono meccanici e non ci sono allenatori. E le biciclette devono essere tutte fatte con gli stessi componenti, dalla sella ai pedali, e per forza di cose montate ed eventualmente riparate da chi le usa. Tutti i telai sono in acciaio, un materiale più facile da riparare, anche se più pesante dell’ormai diffusissimo carbonio.
Anche nello svolgimento delle gare, il keirin giapponese è qualcosa di molto particolare. I ciclisti si presentano al velodromo della corsa senza bicicletta e prima di entrare devono consegnare i loro telefoni cellulari. La bicicletta la troveranno una volta entrati: smontata, impacchettata e spedita dal precedente velodromo in cui avevano corso. I cellulari vengono sequestrati perché per tutta la durata degli eventi – che spesso durano fino a quattro giorni – tutti i ciclisti devono stare isolati dall’esterno, per evitare che le gare possano essere in qualche modo pilotate, alterando così le scommesse.
Le uniche volte in cui i ciclisti possono stare all’aperto è per le gare, perché i velodromi del keirin giapponese sono all’aperto, e ci si corre anche se piove.
Un’altra cosa strana è che, sempre per rendere le scommesse il più corrette possibile, prima della gara i corridori devono dichiarare la loro tattica per provare a vincere, così che la sappiano sia gli avversari che gli scommettitori. Sempre per evitare che le gare possano essere pilotate, i ciclisti non possono fare gesti particolari verso il pubblico, nemmeno in caso di vittoria. Sia prima che dopo ogni corsa ci sono però una serie di riti, fatti di inchini e gesti di rispetto e riconoscenza verso gli avversari.
Come ha spiegato BBC, ancora oggi in Giappone ci sono decine di velodromi e si possono vedere gare di keirin 365 giorni l’anno. Il giro d’affari stimato per il keirin in Giappone era, prima della pandemia da coronavirus, di oltre 10 miliardi di euro e i più bravi tra i corridori di keirin possono arrivare a guadagnare ogni anno anche più di un milione di euro, soprattutto grazie ai premi.
Da qualche anno, però, sempre più velodromi sono sempre più vuoti perché, fatta eccezione per le corse più importanti, la maggior parte degli spettatori le guarda in tv oppure su internet, scommettendo a distanza.