Cosa sono le microaggressioni
Ci sono comportamenti che possono sembrare innocenti ma nel lungo periodo possono causare danni psicologici piuttosto seri: è bene quindi saperli riconoscere
Può capitare a tutti di provare fastidio per piccoli comportamenti di altre persone, per esempio quando si viene interrotti nel mezzo di un discorso, o se ci viene rivolta una battuta sarcastica che per qualche motivo tocca una nostra debolezza, o ancora se sui mezzi pubblici qualcuno evita palesemente di sedersi vicino a noi. Questi comportamenti hanno un nome tecnico – “microaggressioni” – e se sono ripetuti sul lungo periodo possono provocare danni psicologici molto seri, anche se spesso possono sembrare comportamenti normali e innocui.
Cosa sono
Distinguere una microaggressione e dargli una definizione precisa è complicato, perché dipende molto dalla percezione di ognuno. Il termine fu introdotto per la prima volta negli anni Settanta dallo psichiatra americano Chester Pierce, ma in Italia se ne discute solo da pochi anni.
In genere, gli studiosi dividono le microaggressioni in due tipi: le “microaggressioni aperte” sono quelle che vengono compiute con il deliberato scopo di arrecare un danno, mentre le “microaggressioni nascoste” avvengono senza che chi le compie abbia coscienza di offendere o mettere a disagio chi le riceve. Come vedremo più avanti, questa classificazione sta cominciando a essere riconsiderata perché comporta alcuni rischi.
Tutti possono trovarsi nella condizione di ricevere una microaggressione e subirne le conseguenze psicologiche, ma è più probabile che questo avvenga a membri di gruppi discriminati o di minoranze: Pierce pensò a questa categoria per descrivere un fenomeno nel quale gli studenti afroamericani delle università statunitensi si imbattevano con frequenza. Le microaggressioni fanno quindi parte di un fenomeno più generale chiamato Minority stress, cioè lo stress psicologico provato dai diversi gruppi di minoranze per i motivi più vari: a causa delle disuguaglianze sociali ed economiche, del razzismo, dell’omofobia, della transfobia, di qualsiasi discriminazione per l’aspetto fisico.
Per capire le microaggressioni basta fare qualche esempio. Il professore statunitense di origine cinese Derald Wing Sue – che si è occupato molto di microaggressioni – ha raccontato di una volta in cui ricevette un complimento che in realtà era più simile a una microaggressione: alla fine di una sua lezione, uno studente andò da lui per complimentarsi e poi aggiunse: «Comunque, parla molto bene l’inglese». Sue, che è nato a Portland (Oregon), gli rispose: «Lo spero bene, visto che sono nato qui».
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Vista da fuori può sembrare un’innocua gaffe, ma in realtà comportamenti simili fanno nascere nelle persone che li subiscono la sensazione di essere intrusi, di non fare effettivamente parte di una certa comunità nonostante in quella comunità siano magari nate e cresciute. È più o meno la stessa cosa che capita a molte persone afroitaliane, a cui viene chiesto puntualmente “da dove vieni?”.
Altri esempi: quando qualcuno dice a una donna “guidi molto bene”, o quando a un infermiere si dice che “è raro vedere infermieri uomini”, o quando a una persona con disabilità le si esprime ammirazione perché esce di casa e fa le stesse cose delle persone abili: “Io al tuo posto non avrei il coraggio!”.
Quali effetti provocano
Le microaggressioni possono provocare disagi di diverso tipo. Le persone tendono a ricevere nel tempo lo stesso tipo di microaggressione (il professor Sue veniva discriminato per l’aspetto asiatico anche da bambino) e quindi il disagio provato è a bassa intensità ma incrementale: si accumula finché si arriva a un punto di rottura in cui si reagisce in maniera sproporzionata di fronte a comportamenti apparentemente innocenti.
Sara Colognesi è una psicoterapeuta di Rovigo che durante la sua attività ha avuto modo di seguire casi di persone che hanno ricevuto spesso microaggressioni. Contattata dal Post, Colognesi ha descritto due tra le conseguenze più dannose che comportano le microaggressioni: «Da una parte c’è il rischio che i comportamenti che causano disagio vengano interiorizzati», spiega Colognesi, «convincendo la persona che quelle cose siano vere. Dall’altra, quando c’è più consapevolezza e quindi ci si rende conto che quella cosa è discriminatoria, il rischio è di provare rabbia e un senso di insicurezza che non ti abbandona mai: capita addirittura che si rinunci a uscire, a partecipare ad attività sociali o a colloqui di lavoro per evitare di trovarsi in situazioni spiacevoli».
Chi è consapevole di ricevere una microaggressione e la riconosce, si trova peraltro nella difficile situazione di dover scegliere cosa fare: subire passivamente per evitare un eventuale scontro, oppure reagire facendo notare il proprio disagio, rischiando di non essere capiti o di essere accusati di avere avuto una reazione esagerata?
Riguardo alle categorie di microaggressioni aperte e nascoste, Colognesi ha espresso alcuni dubbi. Distinguendo tra offese volontarie e involontarie, si perde di vista il punto più importante, e cioè essere più ricettivi ed empatici nei confronti delle altre persone: «Sbagliare e dire cose fuori luogo è quasi impossibile da evitare», ha spiegato Colognesi, «quindi non dobbiamo concentrarci sull’intenzionalità, ma dobbiamo imparare ad ascoltare le esigenze degli altri e migliorarci anche grazie agli errori commessi. L’importante è riconoscerli». Giustificarsi dicendo “non l’ho fatto apposta” oppure “non volevo offendere” può portare invece a non riconoscere il sistema di valori che ha prodotto la microaggressione, anche se involontaria.
Come comportarsi
Chi sottovaluta le conseguenze delle microaggressioni potrebbe sostenere che dare loro troppa importanza interferisca con la libertà di ciascuno e crei un clima per cui bisogna stare attenti a tutto ciò che si dice per timore di offendere. In realtà, come ha detto anche Colognesi, gli errori possono capitare a chiunque e non bisogna preoccuparsene troppo: bisogna preoccuparsi invece di fare attenzione alle reazioni delle persone con cui parliamo, e ammettere l’errore anche quando non è deliberato.
La cosa da fare per chi invece riceve una microaggressione è cercare di disinnescarla con quelli che il professor Sue chiama “microinterventi”: risposte che da un lato disarmano la microaggressione (come ha fatto Sue con lo studente dicendogli che parla bene inglese perché è nato negli Stati Uniti), dall’altro fanno capire all’interlocutore che quello che ha detto era fuori luogo.
Sue suggerisce anche di non mettersi sulla difensiva se qualcuno si dice offeso da qualcosa che abbiamo detto, ma di rimanere pazienti e ascoltare senza lasciarsi prendere dalle emozioni, perché «nessuno è immune dai pregiudizi razziali, sessuali e di genere nelle nostre società».
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