Il sistema dei buoni pasto ha un problema
Da tempo i commercianti dicono che le commissioni da pagare sono diventate insostenibili, e in molti danno la colpa alla Consip: cioè allo Stato
Da alcuni anni, ciclicamente, le associazioni dei commercianti tornano a lamentarsi dei buoni pasto, il sistema usato da milioni di lavoratori per pagare il pranzo nei giorni di lavoro e che ha un giro di affari di diversi miliardi di euro all’anno. A febbraio, prima del lockdown, durante un convegno organizzato dalle principali associazioni di categoria si era parlato di un sistema vicino “al collasso”, ed era stata minacciata la possibilità di smettere di accettare tutti i buoni pasto. Nelle ultime settimane, complici le nuove difficoltà economiche di molte attività, si è tornati a discutere di questi problemi e della loro causa: che secondo quasi tutti è la Consip, la società pubblica che si occupa di appalti per la pubblica amministrazione.
Cosa sono i buoni pasto
Per capire da dove nascano le critiche delle associazioni dei commercianti bisogna partire dal funzionamento dei buoni pasto in Italia. I buoni pasto, a volte chiamati anche “ticket restaurant” dal nome di uno dei principali marchi del settore, sono un servizio riservato ai lavoratori dipendenti del settore pubblico o privato o a collaboratori esterni, che funziona come alternativa alla fornitura di un servizio mensa per il personale.
Essendo un’alternativa a un pasto, i buoni pasto di base non prevedono oneri fiscali o previdenziali né per il datore di lavoro né per il dipendente: le aziende non pagano tasse sul valore dei buoni pasto e i dipendenti possono utilizzare quel valore per fare acquisti, con alcune limitazioni sui prodotti che possono comprare. Fino al 2019 l’esenzione fiscale per i buoni pasto arrivava fino a un valore di 5,29 euro per quelli cartacei e fino a 7 euro per quelli elettronici; l’ultima finanziaria ha abbassato a 4 euro il limite per i buoni pasto cartacei e ha alzato a 8 euro quello per i buoni pasto elettronici, per favorire l’utilizzo di questi ultimi.
Per le aziende, fornire buoni pasto ai lavoratori è decisamente più conveniente che versare l’importo equivalente in busta paga, dato che quest’ultimo sarebbe soggetto sia alla contribuzione previdenziale che a quella fiscale. Sui buoni pasto, inoltre, è totalmente detraibile l’IVA (del 4 per cento per i dipendenti e del 10 per cento per collaboratori, liberi professionisti, dirigenti e soci delle aziende erogatrici).
– Leggi anche: L’industria alimentare sta reggendo, per ora
A fornire i buoni pasto sono alcune società specializzate – tra le più popolari ci sono Sodexo, Edenred, UpDay e Pellegrini – che stipulano con le singole aziende contratti di fornitura. Nel caso della pubblica amministrazione, i contratti di fornitura vengono assegnati con gare d’appalto pubbliche bandite dalla Consip (la centrale acquisti per la pubblica amministrazione). A loro volta le società che emettono buoni pasto firmano delle convenzioni con gli esercenti (bar, ristoranti da asporto, gastronomie o supermercati), in base alle quali gli esercizi commerciali ricevono un rimborso del valore del buono pasto, meno una percentuale definita nel contratto di convenzione.
In fondo alla catena dei buoni pasto ci sono quindi i commercianti, che ogni giorno li ricevono dai loro clienti in cambio di prodotti alimentari e ogni mese li inviano alle società emettitrici per ottenere il rimborso. Ai commercianti conviene accettare i buoni pasto, per garantirsi come clienti i molti lavoratori dipendenti che li usano, ma il rimborso che ottengono per i buoni non è pari al loro valore nominale, perché una percentuale del valore è trattenuta dall’emettitore del buono in cambio del servizio di intermediazione.
Secondo le associazioni di categoria, nel 2019 in Italia sono stati emessi 500 milioni di buoni pasto, per un valore complessivo di 3,2 miliardi di euro: di questi, 175 milioni sono stati acquistati dalle pubbliche amministrazioni, che li hanno messi a disposizione di 1 milione di lavoratori. In tutto sono 2,8 milioni i lavoratori che ricevono buoni pasto e il 64,7 per cento di questi li utilizza «come prima forma di pagamento ogni volta che esce dall’ufficio», hanno detto i rappresentanti delle associazioni. Si calcola che ogni giorno i lavoratori spendano negli esercizi commerciali convenzionati 13 milioni di euro in buoni pasto, anche se i dati più recenti non tengono ancora in considerazione i cambiamenti causati dal coronavirus.
Sconti e commissioni
Come ha spiegato al Post Luciano Sbraga, vicedirettore della FIPE (Federazione Italiana Pubblici Esercizi), inizialmente le commissioni che gli esercenti dovevano pagare alle società che emettono buoni pasto erano molto basse (intorno al 3 per cento del valore nominale dei buoni). Le cose hanno però cominciato a cambiare quando la Consip ha iniziato a bandire gare d’appalto per l’assegnazione dei servizi di buoni pasto alle aziende pubbliche, introducendo il criterio del massimo risparmio. La Consip, in pratica, assegnava i suoi grossi contratti di fornitura ai gruppi che facevano l’offerta economica migliore, mettendo in secondo piano gli aspetti qualitativi delle offerte. Queste gare, ha detto Sbraga, sono diventate nel corso del tempo «gare sul prezzo», più che sugli effettivi servizi offerti dalle varie società di buoni pasto.
– Leggi anche: Non è un buon momento per la birra Corona
Alle grandi società emettitrici di buoni pasto conviene partecipare alle gare Consip, perché rappresentano una quota enorme del mercato dei buoni pasto in Italia. I grossi sconti che è necessario offrire per vincere le gare creano tuttavia un problema nel sistema: i buoni pasto vengono pagati da Consip meno del loro valore nominale, ma quando vengono usati dai dipendenti in pausa pranzo, ai buoni pasto viene riconosciuto il loro valore nominale. Della differenza tra quanto i buoni vengono pagati e il loro valore nominale qualcuno deve farsi carico: i commercianti o le società emettitrici dei buoni.
A rendere la cosa ancora più complicata c’è il fatto che gli sconti stabiliti al termine delle gare Consip diventano poi uno standard anche per il resto del mercato dei buoni pasto. Emmanuele Massagli, presidente dell’Associazione Nazionale delle Società Emettitrici di Buoni Pasto (ANSEB), ha spiegato al Post che le grandi aziende italiane che acquistano buoni pasto sono spesso molto esplicite nel far capire di attendersi gli stessi sconti applicati per i contratti Consip (che sono pubblici), e avendo molto potere contrattuale li ottengono. Il problema di far quadrare i conti tra il prezzo a cui vengono venduti i buoni pasto e il loro valore nominale, quindi, riguarda una grandissima parte del mercato italiano ed è all’origine di gran parte delle lamentele dei commercianti.
Gli sconti ottenuti da Consip con le sue gare sono cresciuti molto negli ultimi anni. Nell’ultima gara conclusa, nel 2018 (una nuova gara è in corso di assegnazione in queste settimane), 15 lotti dal valore complessivo di 1 miliardo di euro sono stati assegnati con uno sconto medio del 20 per cento e con picchi al di sopra del 22 per cento, mentre nel 2016 lo sconto medio era stato del 15 per cento.
I negozianti
Nel convegno organizzato a febbraio, le associazioni di categoria dei commercianti avevano detto che per come stanno le cose oggi «un esercente vende prodotti e servizi per valore di 8 euro ma ne incassa 6,18. Aggiungendo a queste commissioni altri oneri finanziari, su buoni pasto del valore di 10mila euro, gli esercizi si vedono decurtare 3mila euro». Gli sconti che vengono applicati al momento della vendita dei buoni pasto, infatti, finiscono per essere pagati dai commercianti, che firmano contratti di convenzionamento che prevedono commissioni pari agli sconti.
– Leggi anche: In Belgio c’è un archivio di lieviti madri
Se inizialmente questo sistema veniva mitigato dalle società emettitrici, che trovavano sistemi per salvaguardare i margini di guadagno dei commercianti, ora è stabilito dalla legge che siano gli esercenti a doversi far carico degli sconti. Un emendamento al codice degli appalti introdotto nel 2017 ha infatti stabilito il principio per cui le società emettitrici devono chiedere commissioni per i loro servizi maggiori o uguali al valore degli sconti applicati al momento della vendita dei buoni. L’emendamento, che ANSEB ha criticato, avrebbe dovuto funzionare come una sorta di limite indiretto all’aumento degli sconti per rendere il mercato più sostenibile, ma non sembra aver avuto per ora altri effetti se non complicare la vita di molti negozianti.
Gli esercenti, che già pagano alle società emettitrici commissioni e oneri per molti servizi che ricevono (dai POS per i buoni pasto elettronici ai costi associati alle procedure di incasso), si trovano quindi a perdere in certi casi fino al 30 per cento del valore nominale dei buoni pasto, con una riduzione enorme dei loro margini di guadagno. Se questa riduzione può essere assorbita in qualche modo da grandi catene di ristoranti o supermercati, le cose sono più complicate per i piccoli esercizi commerciali.
Che futuro hanno i buoni pasto
Nel 2018 il fallimento di Qui! Group, uno dei più grandi gruppi di buoni pasto in Italia, aveva fatto discutere della solidità del sistema e delle sue prospettive. Dietro al fallimento di Qui! Group, che aveva un ammanco di 325 milioni di euro nei suoi conti, non sembra esserci stata solo la questione degli sconti delle gare Consip, ma è possibile che la precarietà finanziaria del gruppo sia stata peggiorata dalla necessità di ottenere i grandi contratti pubblici applicando sconti crescenti.
I problemi del sistema dei buoni pasto sono comunque riconosciuti da quasi tutte le parti in causa, comprese le società emettitrici dei buoni. Emmanuele Massagli ha definito «reale» il problema delle commissioni troppo alte per i commercianti, e ha detto che ANSEB è da tempo al lavoro per provare a trovare una soluzione. Una di queste sarebbe un limite agli sconti applicabili nelle gare Consip, in modo che la gara venga assegnata anche in base a principi qualitativi. Questo però limiterebbe il risparmio di Consip, e quindi dello Stato, e per il momento non sembra che ci sia l’intenzione di andare in questa direzione.
A migliorare la situazione per i commercianti, ha detto Massagli, potrebbe invece essere il graduale passaggio dai buoni pasto cartacei a quelli elettronici, che hanno rischi e costi di gestione molto minori (i buoni pasto cartacei, solo per fare un esempio, vanno spediti per posta a fine mese per ottenere il rimborso e i furti capitano spesso). L’ultima legge di bilancio, che ha aumentato a 8 euro il limite per l’esenzione fiscale dei buoni pasto elettronici, va in questa direzione. Secondo una stima di ANSEB, se nel 2019 i buoni pasto elettronici erano circa il 40 per cento del mercato, a fine 2020 potrebbero arrivare a essere l’80 per cento.
– Leggi anche: I cibi a chilometri zero non sono sempre i migliori per l’ambiente