Perché si riparla dei casi giudiziari di Berlusconi
Un giudice che lo condannò nel 2013 per frode fiscale ha definito un «plotone di esecuzione» i suoi colleghi, in una registrazione diffusa dal Riformista
Negli ultimi giorni si è tornati a parlare dei casi giudiziari dell’ex presidente del Consiglio e oggi europarlamentare Silvio Berlusconi, a causa di una conversazione fra lui e uno dei giudici che lo condannarono in via definitiva a quattro anni di carcere nel 2013, Amedeo Franco. A causa di quella condanna Berlusconi fu costretto a lasciare il Parlamento per via della legge Severino, e il giudice in questione sostiene che la sentenza fu sostanzialmente motivata da pressioni politiche, paragonando il collegio di giudici della Cassazione a un «plotone di esecuzione» (la Cassazione ha respinto tutte le accuse).
La conversazione è avvenuta anni fa, non è chiarissimo quando, ma il suo contenuto è stato diffuso soltanto nei giorni scorsi dal Riformista, e poi corroborato da una registrazione audio trasmessa da varie tv. Il Riformista sostiene che la conversazione fosse da tempo nelle mani degli avvocati di Berlusconi, che finora non l’avevano mai diffusa per non danneggiare la reputazione di Franco (morto nel 2019).
La notizia ha provocato moltissime reazioni, soprattutto nel centrodestra. I principali alleati di Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, hanno preso apertamente le sue difese, mentre diversi parlamentari di Forza Italia – il partito di cui Berlusconi è ancora a capo – hanno chiesto che venga risarcito con la nomina a senatore a vita.
In realtà il caso è più sfumato di quanto sostenga chi difende Berlusconi: nei giorni successivi i giornali hanno trovato conferme sul fatto che Franco avesse dei rimorsi nei confronti della sentenza; ma allo stesso tempo non è emersa alcuna prova a sostegno delle pesanti accuse di cui Franco parla a Berlusconi.
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Il processo di cui si parla era iniziato nel 2005 e riguardava la compravendita dei diritti televisivi di alcune società statunitensi da parte delle reti Mediaset, per un valore complessivo di 470 milioni di euro. La tesi della procura di Milano era che fra il 2002 e il 2003 Fininvest – che controllava Mediaset ed era di proprietà della famiglia Berlusconi – avesse acquistato i diritti televisivi attraverso due società off-shore, le quali avevano poi rivenduto i diritti a Mediaset a un prezzo molto più alto. La differenza tra il valore reale e quello finale consentì di mettere da parte “fondi neri” per 280 milioni di euro, spartiti fra Fininvest e le società di consulenza. La sentenza di primo grado per frode fiscale arrivò nell’ottobre del 2012, quella di appello nel maggio del 2013, infine la Cassazione confermò la condanna nell’agosto del 2013.
Nella conversazione con Berlusconi, Franco avanza una serie di gravi accuse – anche se piuttosto confuse e mai nel merito del caso – sui suoi superiori e i suoi colleghi, parlando di «una grave ingiustizia», di «malafede» del collegio dei cinque giudici, di «pressioni» affinché il processo fosse assegnato alla sezione feriale della Cassazione, composta secondo Franco da giudici «ragazzini», poco esperti e quindi manipolabili.
Durante la conversazione Berlusconi incalza Franco e si dice d’accordo con le sue valutazioni – da tempo Berlusconi ritiene di essere perseguitato per ragioni politiche da una grossa fetta della magistratura italiana – ma nel pezzo di registrazione pubblicato dai giornali nessuna delle accuse viene particolarmente approfondita, né Franco spiega a Berlusconi chi abbia deciso di pilotare la sentenza.
La registrazione si conclude con Franco che dice a Berlusconi di essere stato «un suo ammiratore», «dall’inizio», «anche se devo stare zitto perché in quell’ambiente è meglio non parlare».
In una recente intervista al Corriere della Sera Ernesto Lupo, che fu presidente della Corte di Cassazione dal 2010 al 2013 ed ebbe contatti con Franco, ha confermato che il giudice provò a lamentarsi con lui della sentenza a Berlusconi. Lupo racconta che fermò Franco perché era «stata una scorrettezza grave per lui violare quel segreto e anche per me se lo avessi indotto a farlo». È una prova piuttosto solida del fatto che Franco non si sia limitato a criticare la sentenza col solo Berlusconi, magari per ottenere fiducia o altri benefici.
Eppure, come fa notare Lupo, Franco avrebbe potuto dissociarsi fin da subito dalla posizione dei suoi colleghi della Cassazione: invece firmò la sentenza, che infatti fu registrata con voto unanime dei cinque giudici del collegio. Il punto meno chiaro di tutta la vicenda è quando e per quale motivo Franco abbia cambiato idea; oppure, se il processo gli era sembrato manipolato fin da subito, perché non depositò un’opinione contraria, mettendo agli atti di essere in disaccordo con gli altri giudici.
Nel frattempo sia la Cassazione sia il presidente del collegio che condannò Berlusconi, il giudice Antonio Esposito, hanno respinto le accuse di Franco. Esposito ha detto di non avere subito pressioni «in alcun modo, né dall’alto né da qualsiasi altra direzione», e definito quelle di Franco «affermazioni false e inventate di sana pianta», e aggiunto che ritiene poco opportuno che un giudice incontri una persona che ha contribuito a condannare a così breve distanza dal processo.
In un comunicato stampa, la Cassazione ha ribadito che «non risulta che il consigliere Amedeo Franco abbia formalizzato alcuna nota di dissenso», e che la sezione feriale fosse il collegio più adatto per giudicare Berlusconi perché è quella che si occupa dei processi che rischiano di finire in prescrizione durante la pausa estiva dei tribunali, proprio come quello che riguardava il caso Mediaset.
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