Come inizia “Il colibrì”, che ha vinto il Premio Strega
È scritto da Sandro Veronesi, che ha ricevuto per la seconda volta il più importante premio letterario italiano
Il colibrì è il libro che quest’anno ha fatto vincere allo scrittore toscano Sandro Veronesi il Premio Strega, il più importante premio letterario italiano. Pubblicato dalla Nave di Teseo, ha ottenuto 200 voti, arrivando primo davanti a La misura del tempo di Gianrico Carofiglio, pubblicato da Einaudi Stile Libero, che ha ottenuto 132 voti. Almarina di Valeria Parrella, pubblicato da Einaudi, ha ottenuto 86 voti; Ragazzo italiano di Gian Arturo Ferrari, pubblicato da Feltrinelli, ha ricevuto 70 voti; Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli ha ricevuto 67 voti e Febbre di Jonathan Bazzi, edito da Fandango, ha ottenuto 50 voti.
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Veronesi – che ha 61 anni – aveva già vinto il Premio Strega nel 2006 con Caos Calmo ed è diventato il secondo scrittore di sempre a vincere il premio per due volte, dopo Paolo Volponi.
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Il colibrì è uno dei libri di narrativa di cui si era parlato di più nel 2019 e che era stato dato da subito tra i potenziali vincitori dello Strega. Racconta la vita di Marco Carrera, soprannominato colibrì dalla madre per la sua piccola e gracile statura, ed è ambientato tra gli anni Settanta e un futuro prossimo. La storia viene raccontata andando avanti e indietro tra passato, presente e futuro, a partire da un incontro che scatenerà o rievocherà altri drammi e tragedie – morti, tradimenti, separazioni, malattie di qualsiasi tipo e amori che non si realizzano mai – che avrebbe potuto travolgere il protagonista che, invece, resiste e resta in piedi.
Di seguito, l’inizio del libro.
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Si può ben dire (1999)
Il quartiere Trieste di Roma è, si può ben dire, un centro di questa storia dai molti altri centri. È un quartiere che ha sempre oscillato tra l’eleganza e la decadenza, tra il lusso e la mediocrità, tra il privilegio e l’ordinarietà, e per adesso tanto basti: inutile descriverlo oltre, perché una sua descrizione potrebbe risultare noiosa, all’inizio della storia, addirittura controproducente. Del resto, la migliore descrizione che si può dare di qualunque posto è raccontare cosa vi succede, e qui sta per succedere qualcosa di importante.
Mettiamola così: una delle cose che succedono in questa storia dalle molte altre storie succede nel quartiere Trieste, a Roma, in una mattina di metà ottobre del 1999, in particolare all’angolo tra via Chiana e via Reno, al primo piano di uno di quei palazzi che appunto non staremo qui a descrivere, dove sono già successe migliaia di altre cose. Solo che la cosa che sta per accadervi è decisiva e, si può ben dire, potenzialmente esiziale per la vita del protagonista di questa storia. Dott. Marco Carrera, dice la targa apposta sulla porta del suo ambulatorio, specialista in oculistica e oftalmologia – quella porta che ancora per poco lo separa dal momento più critico della sua vita dai molti altri momenti critici.
All’interno dell’ambulatorio, infatti, al primo piano di uno di quei palazzi eccetera, egli sta prescrivendo una ricetta a una vecchia signora malata di blefarite ciliare – collirio antibiotico, dopo un innovativo, anzi, rivoluzionario, si può ben dire, trattamento a base di N-acetilcisteina instillata nell’occhio che ha già risolto in altri suoi pazienti il problema più grave di questa patologia, e cioè la tendenza a cronicizzare. All’esterno, invece, il destino sta aspettando di travolgerlo per il tramite di un ometto basso di nome Daniele Carradori, calvo e barbuto, dotato però di uno sguardo – si può ben dire – magnetico, che tra poco si concentrerà sugli occhi dell’oculista instillandovi prima incredulità, poi sconcerto e infine un dolore che non potranno essere curati dalla sua (dell’oculista) scienza.
È una decisione che l’ometto ormai ha preso, e che lo ha spinto fino alla sala d’attesa dove ora sta seduto a guardarsi le scarpe senza approfittare della ricca offerta di riviste nuove di zecca non marce e vecchie di mesi – sparse sui tavolini. Inutile sperare che ci ripensi.
Ci siamo. La porta dell’ambulatorio si apre, la vecchia blefaritica varca la soglia, si volta a stringere la mano del dottore e se ne va verso il banco della segreteria a pagare la prestazione (120.000 lire), mentre Carrera fa capoccella per invitare il prossimo paziente. L’ometto si alza, si fa avanti, Carrera gli stringe la mano e lo fa accomodare. Il giradischi d’epoca marca Thorens ormai superato dai tempi – ma ai suoi, di tempi, cioè un quarto di secolo fa, uno dei migliori –, incastonato nello scaffale insieme al fido amplificatore Marantz e alle due casse in mogano AR6, sta riproducendo a volume bassissimo il disco di Graham Nash intitolato Songs for Beginners (1971), la cui enigmatica copertina, appoggiata al suddetto scaffale, e raffigurante il suddetto Graham Nash con una macchina fotografica in mano in un contesto di difficile decifrazione, risulta la cosa più vistosa di tutta la stanza. La porta si richiude. Ci siamo. La membrana che separava il dottor Carrera dal più potente urto emotivo di una vita ricca di altri potenti urti emotivi è caduta.
Preghiamo per lui, e per tutte le navi in mare.
Cartolina fermo posta (1998)
Luisa LATTES
Poste Restante
59-78 Rue des Archives
75003 Paris
France
Roma, 17 aprile 1998
Io lavoro e penso a te
(© La Nave di Teseo 2020)