“Disclosure”, sulle persone che non vediamo
Cosa si dice del primo documentario con un cast e una produzione a maggioranza transgender, da qualche settimana su Netflix
Nella storia di Hollywood i personaggi transgender non sono pochi: The Danish girl, Boys don’t cry e Dallas Buyers Club sono solo i film più premiati tra quelli che negli ultimi vent’anni hanno parlato di persone con un genere diverso da quello attribuito loro alla nascita. Nonostante questo però gli attori e i registi transgender sono pochissimi e quelli di cui la maggior parte delle persone saprebbe fare il nome si contano sulle dita di una mano. Tra questi c’è probabilmente Laverne Cox, l’attrice afroamericana che molti ricordano per l’interpretazione di Sophia Burset nella serie TV Orange is the new black, ma ― soprattutto tra il pubblico italiano ― è probabilmente l’unica o una delle poche.
Da questo paradosso ha origine la rappresentazione distorta che, fin dalla sua nascita, l’industria cinematografica ha fatto delle persone transgender. Nel documentario Disclosure, presentato a gennaio al Sundance Film Festival e dal 19 giugno disponibile su Netflix in molti paesi, il regista e produttore Sam Feder ha raccontato la storia della rappresentazione trans nel cinema dall’inizio alla fine: partendo dai film muti, passando per Psycho, Nip/Tuck, Sex and the city e Ace Ventura, arrivando alla produzione della serie TV del 2018 Pose, la prima con un cast a maggioranza transgender.
Quando Disclosure venne presentato al Sundance Film Festival, The Hollywood Reporter lo definì «stimolante ed emotivo», «accademico ma non ottuso», e citò tra i suoi predecessori il documentario del 2016 The trans list, che raccoglieva le interviste e le storie di undici persone trans, ma che, diversamente da Discolsure, non aveva una troupe a maggioranza transgender. «Il contenuto di Disclosure e il suo linguaggio visivo», si legge su The Hollywood Reporter, «mostrano una certa somiglianza con questo precedente film e con altri, ma questo è un documentario fatto con un tipo di intenzionalità che, nel bene e nel male, è raro e atteso da tempo».
Altri hanno paragonato Disclosure a Lo schermo velato, il documentario che nel 1995 ripercorse la storia della rappresentazione dei personaggi omosessuali nel cinema, accostando immagini di repertorio a interviste fatte ad attori, sceneggiatori e registi gay o lesbiche. Alcuni dei film citati da Disclosure, come per esempio Il silenzio degli innocenti, erano già stati analizzati in quel documentario. In un’intervista a The queer review, il regista di Disclosure, Sam Feder, ha raccontato che Lo schermo velato e Ethnic notions – un film del 1987 che fece la stessa analisi, ma sulla rappresentazione delle persone afroamericane ― sono i due film che gli hanno cambiato la vita.
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Feder ha anche detto di aver sempre voluto replicare questo formato e adattarlo alla rappresentazione delle persone trans, ma di essersi finalmente deciso solo nel 2014, dopo aver visto Laverne Cox in copertina su Time Magazine: «Il fatto che Laverne fosse in copertina ha dato l’impressione che si potesse festeggiare, come se avessimo raggiunto il nostro obiettivo di uguaglianza, di liberazione e i nostri diritti fossero garantiti: cosa che sappiamo che non è successa» ha raccontato Feder, «avere una persona visibile sui media non risolve i problemi della comunità trans internazionale. Io sapevo che c’era molto di più da raccontare rispetto a quello che il pubblico stava vedendo e decisi di mettere insieme tutta la storia».
Laverne Cox è anche una delle produttrici del film e una delle persone più presenti tra quelle intervistate nel documentario. Insieme a lei compaiono, solo per citarne alcune: Lilly Wachowski, una delle due sorelle transgender che hanno creato la saga di Matrix, Mj Rodriguez, la protagonista transgender della serie TV Pose, Jamie Clayton, attrice transgender della serie TV Sense8, e Chaz Bono, attore, scrittore e attivista transgender (figlio di Sonny Bono e Cher). Teo Bugbee ha scritto sul New York Times che in Disclosure «la passione e la conoscenza degli intervistati è ciò che dà forza a un format già visto — forse banale».
Tutto il documentario è costruito a partire dalle voci delle persone transgender intervistate, che raccontano soprattutto esperienze personali, sia da fruitori che da professionisti del cinema. A un certo punto, per esempio, l’attrice Candis Cayne racconta che la sua voce nella serie TV Dirty Sexy Money fu abbassata di due ottave perché la sua mascolinità fosse più evidente e che lei lo scoprì solo quando il primo episodio andò in onda. Sempre Cayne, dice di aver perso il conto di tutte le volte che ha interpretato un cadavere. Disclosure però non si limita a dare spazio e voce alle persone trans, ma «offre un racconto innovativo e di intrattenimento con un impatto emotivo continuo», si legge su The Hollywood Reporter: «Feder, che ha fatto il regista per quasi vent’anni, ha una mano delicata ma ferma. Il film è come un vestito che sembra semplice, ma ha una struttura intrinseca nascosta».
«Uno dei momenti più alti e inaspettati del film è senza dubbio l’identificazione di Cox con Barbra Streisand in Yentl», ha scritto Jude Dry su IndieWire, «la sua prospettiva sul film è un esempio bellissimo di come diverse lenti possano accrescere la nostra comprensione del cinema classico». In Yentl infatti Streisand interpreta una ragazza che, per diventare rabbino, è costretta a travestirsi da uomo; quindi, in un certo senso, il contrario rispetto alla storia di Laverne Cox che è nata donna in un corpo da uomo. «Si innamora di questo ragazzo e vuole che lui la veda per la donna che è, ma lui vede solo l’uomo che lei rappresenta», spiega Cox nel documentario, «e quella mi sentivo io, pensavo: “sono io”. Non avevo le parole per dirlo e non ho mai capito bene perché, ma era così».
Disclosure non è un documentario sulla transessualità in generale: fin dall’inizio è molto chiaro che si parlerà della transessualità solo nei termini della rappresentazione che ne ha dato il cinema e la televisione nell’ultimo secolo. Nel film infatti si alternano solo due tipi di contenuti: interviste ad attori, attrici e professionisti dello spettacolo e scene di film o di programmi televisivi. Il film dura un’ora e quaranta e, come fa notare il critico cinematografico Peter Debruge su Variety, «non dedica tempo alle definizioni, o alla storia dell’identità trans in senso stretto. Ci sono semplicemente troppe cose da dire su come i media hanno trattato i personaggi non conformi».
L’argomento, per quanto limitato al cinema, è comunque sterminato: Deirdre Molumby ha scritto su Entertainment che c’è talmente tanto materiale che avrebbe potuto facilmente diventare una serie. Nel film ci sono centinaia di scene di film e spezzoni televisivi che mostrano come i personaggi transgender e travestiti siano ovunque nel cinema, ma sempre rappresentati in modo caricaturale, ridicolo, in molti casi degradante e certamente molto dannoso per gli spettatori che vi si immedesimavano. Nel film, lo scrittore e speaker Zeke Smith racconta di aver amato il film Ace Ventura: Pet Detective e di aver realizzato solo dopo anni, durante la transizione, che a un certo punto c’è una scena con un’intera stanza di uomini che vomitano alla vista di una donna trans.
Come viene spiegato anche nel film, circa l’80 per cento degli americani non conosce personalmente qualcuno che sia transgender. La percezione generale che si ha di queste persone viene dai media, e lo stesso vale anche per le stesse persone trans che, in cerca di modelli e ruoli in cui immedesimarsi, non trovano altro che caricature pensate per far ridere il pubblico o persone rifiutate, allontanate, vittime di disprezzo e violenza.
I limiti delle rappresentazioni delle persone trans che emergono dal documentario si sviluppano su diversi livelli, alcuni più facilmente comprensibili, altri più sottili. Il problema delle scene in cui vediamo personaggi transgender rifiutati, offesi o picchiati, così come di quelle in cui emerge il lato più ridicolo e umiliante, arriva allo spettatore in modo immediato. Ma il documentario mette in luce anche punti critici meno lampanti: per esempio il problema delle interpretazioni di personaggi transgender fatte negli ultimi anni da attori e attrici cisgender (cioè che si identificano con il proprio sesso biologico), che continuano a trasmettere l’idea che le persone trans non siano “reali”, che il genere e il sesso originario siano sempre lì. O la curiosità morbosa che emerge nelle interviste televisive per gli aspetti più intimi della vita delle persone di genere non conforme ― di cui qualcuno potrebbe ancora chiedersi: che male c’è?
La scelta di Netflix di far uscire Disclosure a giugno ― il mese del Pride in cui in molti paesi del mondo si festeggia l’orgoglio delle persone LGBTQ+ ― non è casuale. Ma Disclosure è uscito in un momento particolarmente azzeccato anche per altri motivi: nella stessa settimana di giugno a New York e Los Angeles si è tenuta una marcia dedicata alle persone trans afroamericane (Black Trans Lives Matter) a cui hanno partecipato in decine di migliaia. Negli stessi giorni la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che non si può licenziare una persona perché è gay o transgender e il presidente Donald Trump ha abolito le norme che vietavano di discriminare le persone transgender in ambito sanitario. Come ha scritto il Guardian: nella settimana di uscita di Disclosure il paradosso della visibilità è apparso in tutta la sua problematicità.