Altro che James Bond
Enrico Deaglio descrive la grandezza dei personaggi di Graham Greene, nell'introduzione alla riedizione del "Fattore umano"
di Enrico Deaglio
Il fattore umano è un romanzo del 1978 di Graham Greene, autore britannico che ebbe grande successo in quei decenni e che guadagnò ulteriore popolarità dalla trasposizione in film di alcuni suoi libri. Greene era giornalista e scrittore, viaggiò molto e fece parte dell’MI6, i servizi segreti britannici, dove conobbe Kim Philby, un agente che si scoprì anni dopo essere stato una spia sovietica. La loro amicizia proseguì anche dopo questa scoperta e la fuga di Kim Philby in Unione Sovietica nel 1963.
Negli anni Settanta, durante la Guerra Fredda che spesso si appoggiava su una retorica che distingueva nettamente buoni e cattivi (il personaggio di James Bond, creato nel 1953, fu il modello di maggior successo in questo senso), Greene scriveva di spionaggio con maggiore attenzione alle contraddizioni dei personaggi: Il fattore umano è un romanzo in cui il protagonista è un agente segreto inglese indeciso se appoggiare i comunisti o restare fedele all’MI6. Le sue motivazioni erano e rimangono credibili permettendo al lettore di empatizzare con un “cattivo”.
La casa editrice Sellerio ha iniziato la ripubblicazione delle opere di Greene da un anno (sono già usciti Il console onorario e Il treno per Istanbul) curate dal consulente letterario Domenico Scarpa e introdotte da un autore diverso per ciascun titolo. Dopo i primi due introdotti da Alessandro Baricco e Antonio Manzini, stavolta è il giornalista e scrittore Enrico Deaglio a scrivere la nota introduttiva per Il fattore umano, nella traduzione di Adriana Bottini.
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Il fattore umano è l’ultimo dei grandi romanzi di Graham Greene, dopo cinquant’anni di successi giornalistici e letterari; e anche il più misterioso: un sospetto stillicidio di notizie che parte dall’ufficio sudafricano dei Servizi segreti inglesi. Greene arriva in piena forma all’appuntamento con il genere che ha inventato – la spy story: a lui si riconosce una ripresa della maestosa narrazione inglese, una capacità di far sentire il lettore a suo agio in avventure che si svolgono in lontani angoli del mondo e – forse il risultato più importante – una nuova definizione dell’«eroe occidentale». Siano essi uomini potenti, consoli onorari, preti ubriaconi, precari agenti segreti, vecchi cinici giornalisti, i personaggi di Greene non sono mai su un piedistallo, ma piuttosto tragici e disperati, fragili e bisognosi di misericordia: e Il fattore umano ne presenta un bel mazzetto.
Come li ha inventati, Graham Greene, questi piccoli uomini nelle tempeste? La risposta è sicuramente nella sua biografia. Figlio di prestigiosi insegnanti della upper class, con Robert Louis Stevenson lontano cugino, il ragazzo ha un’infanzia privilegiata, con una passione per le storie di avventura e un tentativo di suicidio. Due ribellioni giovanili: ad Oxford, dove è studente al Balliol College, si iscrive («per poche settimane») al partito comunista e nello stesso tempo si converte alla religione cattolica («credo nella cristianità, ma non in Dio», dirà poi), per amore della fidanzata e sua futura moglie. I suoi biografi sostengono che questi due avvenimenti spieghino sufficientemente la sua passione per i perdenti della terra, la sua pietas per gli underdog, la sua avversione crescente nei confronti della politica imperialista americana. Il resto della sua poetica gli viene dall’aver passato praticamente tutta la vita «al servizio di Sua Maestà» e del suo impero, come membro di spicco dei famosi (e molto letterari) Servizi segreti inglesi; Greene, per esempio, spesso con la copertura dello svagato giornalista, ha fatto conoscere ai suoi lettori (e ai suoi superiori) i segreti dell’Europa nazista, il Vietnam di Ho Chi Minh, le utopie dei Caraibi e del Centro America, le rivolte di Haiti, del Kenia, della Malesia e della Sierra Leone. Greene è probabilmente l’unico scrittore inglese che ha vissuto uno straordinario impasto di passioni, pentimenti, agnizioni sul palcoscenico shakespeariano di «All the world’s a stage / And all the men and women merely players», con Stevenson, Conrad e i Vangeli come libri da comodino.
Nel 1978, quando il libro esce – con la fanfara che si riserva ad uno degli autori inglesi più popolari (ma anche con la concorrenza in libreria del George Smiley di John le Carré), lo scrittore è un gentleman inglese di 73 anni, dagli occhi blu intensi, alto e asciutto, che veste «grisaglie talmente classiche da apparire sovversive», membro dei club londinesi più esclusivi, dove lo si trova spesso a pranzo con il fratello Sir Hugh, che è stato direttore generale della BBC, e con i membri della Royal Society. Ma Greene ha anche casa a Parigi, ad Anacapri, ad Antibes, a Vienna. Non a New York, però. E neppure a Hollywood dove è ricordato come sceneggiatore di film di culto. Perché? Graham Greene, uno dei più famosi scrittori del mondo, è «persona non grata» per il governo americano da quando pubblicò, nel lontano 1955, The Quiet American, uno dei suoi romanzi di maggiore successo. Si narrava, mentre la guerra del Vietnam ancora non si sapeva che cosa sarebbe stata, come questa era cominciata. Ambientato nel 1952 a Saigon, il protagonista era Thomas Fowler, un vecchio giornalista inglese, stagionato corrispondente di un prestigioso quotidiano londinese, semi divorziato per noia, e amante senile di una giovane taxi dancer vietnamita. La guerra di liberazione nazionale è nell’aria, la disfatta francese di Dien Bien Phu anche, quando ecco arrivare il giovane americano Alden Pyle, un idealista che lavora ad un progetto di cooperazione sanitaria, in realtà agente della CIA incaricato di far precipitare la situazione per imporre un governo autoritario e filo americano a Saigon. Pyle è allo stesso tempo, come i migliori ritratti di Greene, aperto e ipocrita, sincero e bugiardo, amico del vecchio giornalista e suo concorrente per il cuore della sua ragazza. La storia finirà male, nel libro e nella realtà, e costerà a Greene (bollato come comunista: l’FBI aveva visto giusto) il divieto di accesso agli Stati Uniti per più di vent’anni. Ma ecco che, anno 1977, succede un fatto strano. Lo scrittore inglese arriva a Washington come consulente del dittatore socialista di Panama, Omar Torrijos, che viene a trattare con il presidente Jimmy Carter lo storico passaggio di proprietà del canale di Panama. Quando la delegazione panamense si presenta ai banchi dell’immigrazione sotto gli occhi dell’FBI pronta a negargli l’accesso, Graham Greene, con un largo sorriso, presenta un passaporto diplomatico panamense. Non solo entra, ma parteciperà alle trattative e avrà un peso nel raggiungere un «buon accordo» per restituire al piccolo Panama i sacrosanti diritti commerciali sul più importante imbuto commerciale del pianeta. Difficile pensare che l’MI6 di Londra non fosse informato delle sue attività…
Ma c’è dell’altro, a rendere di attualità Il fattore umano; Greene ha mandato le bozze del libro a Mosca, al suo mentore più imbarazzante: Kim Philby, la spia più famosa del Novecento, di cui Graham Greene, al tempo del controspionaggio contro i nazisti, è stato sottoposto e amico. Philby, come Greene, è un membro dell’establishment britannico, ed è stato uno dei «Cambridge Five», ovvero le cinque spie che l’Unione Sovietica ha addestrato fin dai tempi dell’università per poi piazzarli ai vertici del Servizio segreto inglese. Sono la vera ruling class britannica: colti, studiosi di letteratura e storia dell’arte, abituati a coltivare il dubbio; il sadismo e l’infelicità sperimentati nelle prestigiose scuole private li hanno resi sessualmente tormentati e sono politicamente convinti che il Bene e il Male non siano proprio come l’Impero britannico li dipinge. Quando Philby – a detta di tutti il più intelligente di tutte le spie dell’impero –, nel 1963 scompare per ricomparire in Urss come colonnello del KGB cui ha portato in dote tutta la rete dello spionaggio occidentale, le onde di shock per la società inglese sono violente: è un intero sistema che crolla, ci vorrà molto tempo per ricostruire. La salvezza, per lo meno nell’immaginario, la darà lo scrittore Ian Fleming, l’inventore dell’agente segreto James Bond, che – vivaddio – non è un intellettuale, non è gay, è anzi una specie di automa playboy maschilista al servizio della Regina e soprattutto un killer del comunismo insensibile ai rimorsi. Un nuovo tipo di eroe si affaccia sulla scena e Graham Greene è l’unico che si oppone a questa regressione antropologica, e ha il carisma per farlo. E quando Philby – il Traditore per eccellenza – scriverà la sua autobiografia (My silent war), sarà proprio Graham Greene a essere incaricato di una breve introduzione in cui giustificherà l’amico che fece quel che fece: non per un personale profitto, ma per un ideale, approvandone, in nome del concetto di amicizia, proprio la suprema slealtà, quella nei confronti della patria.
Non si sa quali cambiamenti Kim Philby apportò al manoscritto del Fattore umano – l’autore, con un simpatico understatement, disse di avergli chiesto solo di verificare se le scene di vita quotidiana dei Servizi segreti di Londra erano «credibili» – ma resta il fatto che la più importante spy story del Novecento ebbe una sorta di imprimatur dal più importante traditore.
Ma eccoci, finalmente, alla trama del Fattore umano: siamo nel centro di Londra, nella sonnacchiosa sede centrale dei Servizi segreti, «reparto Sudafrica», lavoro di assoluta
routine affidato all’agente Castle, dalla lunga esperienza e alla soglia della pensione, e al più giovane Davis, che sogna di essere assegnato in Mozambico, nella città che allora si chiamava Lourenço Marques. La quiete è rotta da una «indagine interna»: da Londra sono passate notizie all’Urss, ci deve essere un «doppio agente». I vertici prendono la questione molto sul serio, anche perché gli americani stanno lanciando in Sudafrica una grande operazione internazionale, nome in codice Zio Remo, che vuole risolvere alla radice la ribellione antiapartheid: si parla dell’uso di bombe atomiche tattiche. Se l’Urss lo viene a sapere, è un vero guaio. Non solo, ma se la talpa capisce di essere sospettata e fugge in Urss, il guaio è ancora peggiore. Tra una battuta di caccia al fagiano e lunghi weekend in campagna, i vertici dell’MI6 passano all’azione, con l’aiuto di uno zelante medico aziendale. L’eroe, se così si può dire, è Maurice Castle, un tempo agente a Pretoria, che era tornato alcuni anni prima dal Sudafrica con Sarah, la moglie bantu, e un figlio troppo nero per gli standard inglesi. A chi darà la sua lealtà, Castle? Alla famiglia? Ai comunisti sudafricani che aiutarono la moglie a fuggire? O cercherà di salvare i neri del Sudafrica su cui sta per abbattersi la tragedia? Le decisioni vanno prese in fretta: c’è un pedinamento, c’è il bambino Sam con il morbillo, c’è l’amato cane Buller (povero Buller…), c’è un libraio che commercia in volumi porno, c’è un polacco con una piccola cicatrice ricordo di quando era bambino nel ghetto di Varsavia…
Il fattore umano fu un grande successo, naturalmente, ma molta critica ebbe a ridire sulla verosimiglianza della trama. Davvero era esistito un piano del genere per «risolvere» il problema sudafricano? Davvero Gran Bretagna e Usa erano giunti a tanto? O non c’era forse lo zampino del correttore di bozze Kim Philby?
Graham Greene non rispose mai. E neppure sappiamo che effetto fece il libro sul detenuto Nelson Mandela, che nel 1978 stava scontando il suo sedicesimo anno di prigionia, ma il cui nome cominciava a risuonare nel mondo.
Il fattore umano servì a cambiare il corso della Storia? Se fosse così sarebbe bello: la migliore missione di due formidabili agenti segreti, Graham Greene e Kim Philby. Altro che James Bond.
1978 © Verdant SA
2020 © Sellerio editore